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martedì 10 dicembre 2024

La dottrina islamica tradizionale riassunta in un ḥadīth

 Per la sintesi della dottrina islamica che fornisce, il cosiddetto Ḥadīth di Jibrīl (ovvero dell’arcangelo Gabriele, considerato dalla Tradizione come l’unico informatore, in varie forme, di Maometto) è uno dei più importanti racconti extracoranici sul Profeta e la comunità dei primi musulmani. Documentato in versioni simili nelle due più autorevoli collezioni sunnite, ovvero quella di al-Bukhārī e quella di Muslim, riporta che ’Umar ibn al-Khaṭṭāb, secondo successore di Maometto alla guida della Ummah, avrebbe narrato quanto segue:

“Un giorno, mentre eravamo seduti accanto al messaggero di Dio ecco apparirci un uomo dagli abiti candidi e dai capelli di un nero intenso; su di lui non vi era alcun segno dell’aver viaggiato, eppure nessuno di noi lo conosceva. Si sedette di fronte al Profeta, mise le ginocchia contro le sue e, appoggiando le palme delle mani sulle sue cosce, gli disse: «Maometto, dimmi cos’è l’Islam». Il messaggero di Dio, pace su di lui, rispose: «É che tu testimoni che non c’è altra divinità oltre a Dio e che Maometto è il messaggero di Dio; che tu compia la preghiera, versi il tuo tributo, digiuni nel mese di Ramadan e faccia il pellegrinaggio alla Ka’ba, se ne hai la possibilità»1. «Dici bene» disse l’uomo. Ci sorprese che fosse lui a interrogare e confermare il Profeta. Gli chiese allora: «Dimmi cos’è la fede». Il Profeta rispose: «É che tu creda in Dio, nei suoi angeli, nei suoi Libri, nei suoi messaggeri e nel Giorno Ultimo; e che tu creda nel decreto divino, sia nel bene che nel male»2. «Dici bene», replicò l’uomo che aveva parlato, aggiungendo: «Dimmi qual è la perfezione nella fede». Il Profeta rispose: «É che tu adori Dio come se lo vedessi; perché se anche tu non lo vedi, certamente Egli vede te»3. L’uomo disse: «Dimmi cos’è l’Ora [Ultima]». Maometto rispose: «L’interrogato non ne sa più di chi lo interroga». E l’uomo riprese: «Parlami allora dei segni premonitori». Maometto rispose: «Quando la serva genererà la sua padrona, e quando vedrai i pastori, miseri, scalzi e nudi, competere nelle costruzioni più elevate». Dopodiché l’uomo sparì e io rimasi assorto. Allora il Profeta, pace su di lui, mi chiese: «Omar, sai tu chi mi ha interrogato?» Io risposi: «Dio e il suo messaggero ne sanno di più». «Era Gabriele – disse – che è venuto per insegnare la vostra religione»”.4

1 Questi cinque articoli sono considerati dai sunniti i pilastri della fede islamica. A loro volta, sono la messa in pratica di una sorta di programma che, insieme al credere nel destino, è chiamato ’Aqīdahconsiderabile come un Credo sunnitaGli sciiti li considerano ugualmente fondanti, ma li accorpano ad altri, quali l’imamato come da loro inteso.

2 Questo sunto della fede islamica è chiamato Imān, che così enumerato rappresenta la parte teorica della ’Aqīdah.

3 Il termine arabo per questa perfezione, ovvero applicazione e riprova del successo nella messa in pratica della ’Aqīdah, è Iḥsāne può esplicarsi in diversi modi. Generalmente è inteso come la parte più spirituale dell’Islam.

4 Dal Ṣaḥīḥ Muslim, Libro della Fede, sulla base della trad. di S. Lei in Sahīh Muslim. Vol. 1, Tawasul Europe, 2021.

mercoledì 16 ottobre 2024

La creazione dell'Uomo nel Corano

 Numerosi passaggi del Corano si occupano della creazione dell'Essere Umano. Le diverse modalità presenti possono essere ricondotte sostanzialmente a due categorie: quella simbolica e quella concreta. Quella simbolica, ovvero antropogonica, riporta il tema della creazione di Adamo, il primo uomo, a partire da un impasto di terra/argilla/polvere (arḍ/ṭīn/turāb) e acqua ('). Poiché il versetto 42:29 identifica l'acqua come base di partenza per tutte le forme di vita organiche del cosmo, l'impasto con la terra da cui origina Adamo indica semplicemente, secondo la logica di questa simbologia, la natura organica e terrestre dell'Uomo.

 Qua ci soffermeremo sul processo concreto di embriologia come descritto in diversi passaggi, prendendo in esame quelli più rappresentativi. Ve ne sono infatti altri che ripetono più o meno gli stessi concetti, e che si limitano a rafforzarne i contenuti. Si premette che, fino a prova contraria, il plurale presente in alcuni passi è qui da intendersi come maiestatico (indicante quindi il soggetto singolare presente negli altri passi, cioè Dio), e si fa notare come i primi due e l'ultimo partano da un accenno della creazione simbolica per poi dettagliare quella effettiva. 

[Dio è] colui che ha perfezionato ogni cosa che ha creato. E ha iniziato la creazione dell'Uomo dall'argilla, poi ha tratto la sua progenie dall'essenza di un liquido poco significante.¹

Sappiate che vi creammo da polvere, poi da una goccia e poi da un'aderenza. E quindi da un ammasso, [in parte] formato e [in parte ancora] no. Così vi spieghiamo. E poniamo nell'utero ciò che vogliamo fino a un termine prestabilito.²

Creammo l'Uomo, per metterlo alla prova, da una goccia [di sostanze] mescolate.³

Non vi creammo forse da un fluido di poco valore, che ponemmo in un luogo sicuro per un certo tempo?⁴

Consideri dunque l'Uomo come fu creato: da un liquido emesso [dal padre], che [poi] esce di tra i lombi e le costole [della madre].⁵

[Dio] vi crea nel ventre delle vostre madri, fase dopo fase, in tre oscurità.⁶

In verità creammo l'Uomo da essenza di argilla. Poi ne facemmo una goccia [di liquido seminale posta] in luogo sicuro. Poi facemmo della goccia un'aderenza, e dell'aderenza un ammasso. Dall'ammasso creammo le ossa e le rivestimmo di carne. E quindi ne facemmo una nuova creatura. Sia benedetto Iddio, il Migliore dei creatori.⁷

 Su tutto questo si potrebbero subito avanzare le seguenti osservazioni:

- le nozioni presentate sono estremamente sintetiche e molto approssimative, dunque bisogna fare uno sforzo interpretativo per trovare delle corrispondenze più precise; questa è però la tipica procedura da seguire con i modelli astratti, metafisici, del Corano, che per la loro forma permettono di essere trasformati in modelli scientifici;

- volendo trovare delle corrispondenze precise, mancherebbero degli stadi nello sviluppo dell'embrione e del feto; ma è pacifico che non fosse scopo del Corano, nel trattare la materia, presentare ogni singolo passaggio del processo, come se si trattasse di un testo di biologia, quanto solo alcuni rappresentativi;

- andando nello specifico c'è un punto che parrebbe oggettivamente scorretto, ovvero si potrebbe opinare che la carne, i muscoli, non si formano dopo le ossa ma contemporaneamente ad esse; tuttavia la cartilagine, che funge da impalcatura per lo sviluppo dello scheletro e può esserne considerata parte integrante, comincia a formarsi appena prima.  

 Detto ciò, possiamo concentrarci sui punti salienti dell'embriologia umana descritta dal Corano:

- essendo dichiarato un fluido di poco valore, il liquido seminale non è evidentemente ritenuto essere da solo sufficiente alla procreazione, come invece creduto in molte culture antiche;

- si dice che il liquido seminale è composto da diverse sostanze, e che solo una di queste (nuṭfa, tradotto come goccia, o sulāla, essenza, utilizzato parallelamente per la creazione simbolica dall'argilla) è capace di fecondare, cosa scoperta solo negli ultimi secoli;

- l'insistenza sul fatto che solo una parte del liquido seminale giunge allo scopo può collimare anche col fatto che, in definitiva, un solo spermatozoo arriva a fecondare l'ovulo;

- si dice che il liquido seminale, o la sua parte fertile, è conservato in un luogo sicuro, e nella vaghezza ciò si può intendere sia prima che dopo essere emesso (ovvero nei genitali maschili e in quelli femminili) e sarebbe ugualmente congruo con ciò che avviene nella realtà;

- si dice che dopo l'emissione e/o la conservazione c'è un'aderenza, un'unione ('alaq), e ciò collima con la fecondazione dell'ovulo;

- si dice che dopo la fase dell'aderenza c'è quella dell'ammasso (muḍgha), e ciò collima con lo sviluppo dell'embrione in un insieme di cellule via via sempre più complesso;

- si dice che poi arriva la fase della formazione di ossa e carne, cioè muscoli e quant'altro, e ciò corrisponderebbe all'evoluzione dell'embrione in feto;

- si dice che durante la formazione alcune parti sono formate, ovvero proporzionate, e altre no, altra cosa che collima con la realtà;

- si parla di tre "oscurità" (ṭulumātin thalāthin) nel ventre materno, passo criptico che si può intendere in vari modi, compreso quello simbolico; sta di fatto che il feto si sviluppa dentro il sacco amniotico, che questo sta all'interno dell'organo specifico dell'utero, e che fra questo e le pareti uterine c'è la placenta.

Conclusioni. 

 Non si può dire che la creazione dell'Uomo come descritta dal Corano sia, come vogliono i "miracolisti" da Maurice Bucaille (scienziato che per primo rese famose le corrispondenze) a Keith L. Moore (che le confermò), completa e perfettamente dettagliata. Tuttavia sono sorprendenti, pur nella tipica indeterminatezza coranica, le effettive corrispondenze fra modelli presenti e nozioni della moderna embriologia. Se anche si potrebbe congetturare che alcune di esse potevano venire, con molta fantasia, dall'attenta osservazione (la natura composita del liquido seminale, la necessaria unione con una controparte femminile, l'intuibile evoluzione in fasi dell'embrione), è difficile fare lo stesso ragionamento per altre. Nello fattispecie sono significative le corrispondenze su questi punti: il fatto che solo una parte del liquido seminale sia fertile, il fatto che solo una parte di questa parte giunga allo scopo ovvero solo uno spermatozoo giunga a fecondare l'ovulo, l'evoluzione da aderenza/zigote ad ammasso/morula/etc, le tre principali strutture grazie alle quali può crescere il feto.

 Queste corrispondenze, insieme a quelle teoricamente intuitive, forniscono un quadro generale che è problematico collocare, per la sua correttezza di fondo, nel contesto che l'avrebbe generato: il Vicino Oriente della prima metà del VII secolo. Per quanto studiosi prescientifici persiani ed egiziani non fossero del tutto all'oscuro di alcune di queste nozioni, non ne avevano esatta contezza e le mischiavano a concezioni erronee, quando non considerabili al giorno d'oggi come frutto della superstizione. Invece, niente di tutto questo è presente in ciò che abbiamo visto: quel che ritroviamo nel Corano è sì vago, ma sufficiente per ricostruire un quadro coerente e relativamente preciso della questione, senza che vi siano riscontrabili errori.

 Di fronte a questa scomoda constatazione, la soluzione di chi non vuole saperne niente è ritornare all'indeterminatezza testuale, e negare le corrispondenze, o evolverle in modo tale da generare delle falle, o tirare in ballo le solite coincidenze. La soluzione dei miracolisti è invece, come sempre, quella di gridare al miracolo, e chiudere così la discussione senza ulteriori indagini. Ma come sappiamo c'è un'altra possibilità, quella che dichiara lo stesso Corano: Maometto aveva degli informatori d'eccezione, dotati di conoscenze e tecnologie per noi impensabili ancora oggi.

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¹ Corano 32:7-8.

² Corano 22:5.

³ Corano 76:2.

⁴ Corano 77:20-22.

⁵ Corano 86:5-7.

⁶ Corano 39:6.

⁷ Corano 23:12-14.

venerdì 4 ottobre 2024

Corano e scienza: la tela del ragno e le reti

 Fra i vari passaggi coranici spesso tirati in ballo quando si parla di "miracolo scientifico" ce n'è uno in cui il protagonista è un animale: il ragno, nella sura che proprio da questo elemento prende il suo nome popolare. Il passo è compreso nel seguente versetto: 

Coloro che prendono come patroni altri in vece di Dio sono come il ragno che si prende una casa. E la più fragile fra le case è la casa del ragno, se solo sapessero.*

 La metafora è semplice e al tempo stesso suggestiva, ma il modo con cui la si rapporta al suddetto "miracolo" è invariabilmente una banalizzazione che, come spesso accade, si traduce in un travisamento del suo significato. Per lo più si va dal ribadire l'ovvio che la tela del ragno, rispetto alla forza umana, è quasi inesistente, al mettere in evidenza che il verbo "si prende casa" (atakhadhatu) è al femminile, e la scienza moderna ha scoperto che sono in effetti i ragni femmina a costruire le tele più elaborate e funzionali. Se anche la seconda è una considerazione interessante, mentre la prima lascia il tempo che trova, entrambe vanno però a scontrarsi con un fatto: si è scoperto che la tela del ragno è uno dei materiali più resistenti in natura, svariate volte più dell'acciaio sebbene incomparabilmente più duttile. Quindi il fatto che il Corano abbia usato il verbo al femminile è semmai una precisazione che svaluta ulteriormente la considerazione più banale, dove altrimenti si sarebbe trovato il verbo al maschile. Dunque, prendendo per buone le contraddittorie spiegazioni fornite dai "miracolisti", il Corano avrebbe affermato un'inesattezza, negazione di quello stesso "miracolo" che si vorrebbe celebrare.

 Possiamo però fare una cosa, dato che ce lo permette la metafora: scambiarne i termini, ragionando all'inverso, e vedere cosa ne esce fuori. La tela del ragno è dichiarata fragile perché simile a chi si pone fuori dall'unica credenza coranicamente plausibile, quella nel dio unico Signore di tutti i mondi (Rabb al-'Alamīn). Quindi cos'ha di particolare lo stare fuori da questa realtà, l'unica dichiarata tale, le altre essendo una finzione ovvero un abbaglio? E cosa c'è in un atteggiamento sociale umano quale la pratica cultuale che si potrebbe rapportare alla tela del ragno?

 La risposta è in ciò che sia la tela del ragno sia una comunità umana sono: una rete. Nel mio manuale dimostro ampiamente come sia questo il modello che il Corano propone come forma iniziale e compiuta dell'islam, e come ciò sia fatto in modo tale da agganciare questa rete globale ad un'altra rete già esistente e molto, molto più ampia, idealmente e un giorno forse anche fisicamente.

 Per sinteticità, nel manuale ho definito questa come teoria delle due reti, intendendo due tipi complementari: le reti particolari, potenzialmente infinite, e la rete universale, che può essere solo una ed è formata dall'unione delle prime. Secondo quanto emerge dal Corano analizzato con questa chiave di lettura, cioè togliendo tutte le stratificazioni interpretative che si sono accumulate nei secoli e si rifanno sempre al passato, i malā'ika (gli angeli, che io definisco operatori) starebbero impiantando sulla Terra la connessione alla rete universale, per e con gli Uomini, come in forme diverse, ma con lo stesso scopo, su infiniti altri pianeti abitati. Ovviamente con modalità che, ça va sans dire, per noi sono tecnicamente incomprensibili e con tempistiche, dichiarate relative, che a noi sembrerebbero imponderabili**.

 Il credere in un solo principio assoluto, non rappresentabile e per questo condivisibile dai credenti di ogni provenienza al di là di qualunque differenza fisica e mentale, cioè nominalmente il dio unico, non è insomma nient'altro che una precondizione per l'aggancio di una qualsiasi rete particolare a quella universale. Invece la tela del ragno e un culto rivolto ad una o più divinità specifiche, locali, che cioè genera una comunità i cui più alti principi sono necessariamente autoreferenziali, hanno entrambi la caratteristica di essere delle reti a se stanti, non agganciabili ad altre reti o comunque non alla più grande, quella universale. E questo al netto della loro solidità relativa. Qua, e non in altro, risiede la loro debolezza.

 E qua risiede il senso della metafora della tela del ragno e la scientificità del Corano, il suo ennesimo modello metafisico, declinabile in questo caso come modello sociale, che non è un "miracolo" bensì, per l'appunto, scienza. Una scienza che, rapportata al VII secolo quando fu fissato il testo coranico, e non solo, va oltre le nostre conoscenze.

* Corano 29:41.

** Gli angeli e lo Spirito ascendono a Lui [Dio] in un giorno la cui durata è di cinquantamila anni. [70:4] | Invero un solo giorno presso il tuo Signore vale come mille anni di quelli voi che contate. [22:47].

Schema tratto dal manuale di connessione dove si rappresenta staticamente il concetto di rete, costituita da diversi nodi e linee di comunicazione compatibili, come desumibile dal Corano. I punti con più di una linea rappresentano i nodi ricetrasmettitori, e quelli con una sola linea, da intendersi come monodirezionale in entrata, quelli solo ricevitori. Le x sono off line, e non ne fanno parte. Punti e x possono rappresentare diversi individui, comunità, popoli, pianeti, e quant'altro, che riconoscano il primato del principio unico, nel caso degli host, o che lo disconoscano, nel caso dei kāfirūna. Possono rappresentare anche reti interne, che hanno reti interne, che hanno reti interne, ad infinitum. O ad Deum. Nel caso delle reti, le x rappresentano per l'appunto quelle "fragili", in conflitto cioè disconnesse da quella universale. Nota bene: questa sarebbe solo l'istantanea di una parte della rete, collegata ad altre reti.

martedì 6 agosto 2024

Tracce di frequentazioni arabo-islamiche nella penisola del Sinis

 Ho prodotto un paper (link di seguito) su due reperti archeologici della penisola del Sinis, in provincia di Oristano, riferibili alla presenza, del tutto temporanea o in parte stanziale, di genti arabe o arabofone: le iscrizioni dell'ipogeo di San Salvatore e l'anello-sigillo rinvenuto nelle acque di Su Pallosu (in foto). Fra le varie cose, propongo una decifratura inedita del calligramma presente nell'anello-sigillo: non al-Mulku li-llāhi Waḥda-hu (الملك لله وحده), ovvero “La sovranità appartiene solo a Dio”, ma al-Makru li-llāhi Waḥda-hu (المكر لله وحده), che si può rendere come “L’astuzia è solo di Dio” e prenderebbe ispirazione direttamente dal Corano.

 In generale si tratta di un'analisi dal taglio accademico, su un argomento che si avvicina più agli studi con cui mi sono cimentato in passato che non alle mie ultime ricerche. Non del tutto però, perché anche qua provo a far luce su dei misteri, sui "secoli bui" della storiografia sarda, e anche qua c'è qualcosa di spirituale che si intravede in lontananza. Buona lettura.

 https://www.academia.edu/122602846/Tracce_di_frequentazioni_arabo_islamiche_nella_penisola_del_Sinis

 N.B. per la consultazione non c'è bisogno di un account, basta scorrere verso il basso fino all'articolo. Qualora alcune lettere delle traslitterazioni apparissero formattate in modo anomalo consiglio l'apertura con un browser diverso.

sabato 8 giugno 2024

Le piramidi e il Corano

  Un recente studio prodotto dall'Università della Carolina del Nord a Wilmington ha stabilito che, con un alto grado di probabilità, le piramidi egizie furono costruite grazie ad un grosso corso d'acqua ulteriore a quello odierno del Nilo, finora sconosciuto perché prosciugato da millenni. Ci sono inoltre le prove che ci fossero altri rami. Morfologicamente, l'antico Egitto era quindi molto diverso da quello attuale, essendo attraversato da più corsi d'acqua di varia portata. Sorprendentemente, su questo fatto possiamo riscontrare delle corrispondenze con ciò che riporta il Corano, un testo fissato vari millenni dopo e con in mezzo un enorme buco nella catena di trasmissione delle conoscenze.

 Partiamo da lontano, con uno dei pochi passaggi biblici (oltre a quello riportato c'è Es 7:19, molto simile) riconducibili a ciò di cui si sta parlando:

Il Signore disse a Mosè: "Di' ad Aronne: "Stendi la mano con il tuo bastone sui fiumi, sui canali e sugli stagni e fa' uscire le rane sulla terra d'Egitto!"". (Es 8:1, Bibbia CEI 2008)

 Non si parla quindi di un solo fiume, il Nilo, ma di più corsi d'acqua facenti parte dello stesso complesso idrico.
 Venendo al Corano, un passo presenta una scena che mette in relazione questi corsi proprio coi faraoni, ovvero con una loro rappresentazione stilizzata nominata فرعون (Fir'aūn):

Faraone arringò il suo popolo dicendo: "Mio popolo, forse non appartiene a me il regno d'Egitto, con questi fiumi che scorrono ai miei piedi? Non vedete dunque?" (Q* 43:51)

 La cosa interessante è che molti di questi corsi d'acqua, e in particolare il secondo ramo del Nilo di portata simile a quello principale, dovrebbero essere scomparsi più di 4'000 anni fa, e non vi è traccia di informazioni in merito da altre fonti antiche. E sebbene si ipotizzasse da tempo della loro esistenza, mai prima d'ora li si era messi in relazione diretta con le piramidi.
 È interessante anche notare che, stranamente e contrariamente a ciò che è impresso nell'immaginario comune, la Bibbia non menziona le piramidi egizie, né esplicitamente né implicitamente. Il Corano invece cita più volte una costruzione, anche in questo caso rappresentante un'intera casistica, protesa verso il cielo, e il cui costruttore diventa anch'esso rappresentativo di tutti i costruttori:

Disse Faraone: “[Miei] sottoposti, per voi non conosco altra divinità che me stesso. Hāmān, accendi un fuoco sull'argilla e costruisci per me un edificio, affinché io possa vedere [se c'è] il Dio di Mosè! Io penso che sia uno dei [tanti] bugiardi”. (Q* 28:38)

Disse Faraone: "Hāmān, costruisci per me un edificio [così alto] che io possa raggiungere le vie dei cieli, e possa vedere [se c'è] il dio di Mosè, [perché] io lo ritengo un bugiardo". Così fu fatta sembrare buona a Faraone la sua cattiva condotta, e fu sviato dalla [retta] via. Il suo piano non fu altro che [destinato al] fallimento. (Q* 40:36-37)

 Quest'ultimo passo è particolarmente significativo perché pare che gli egizi chiamassero le piramidi col nome MeR, traducibile come "luogo che va verso l'alto", ma questa è una nozione della moderna egittologia che non si ha prova fosse nota al tempo e nel luogo della rivelazione coranica. Certo, lo slancio verso il cielo delle piramidi parla da solo, così come non passa inosservata la loro mole colossale, e in definitiva è abbastanza evidente si stia alludendo ad esse. Ma non era scontato leggerne nel Corano perché, ad esempio, la Bibbia non ne fa cenno.
 Il primo passo è sorprendente per l'accostamento col fuoco e ciò per almeno due motivi che non per forza si autoescludono (impiegando normalmente il Corano la sommatoria di significati):

 ١ - l'etimologia della parola 'piramide', con cui la loro fama si diffuse nel mondo antico, è dal greco πυραμίς (pyramis), che letteralmente significa "a forma di fuoco" cioè di fiamma; in arabo 'piramide' si dice هرم (haram, parola che sostanzialmente vuole dire "cosa molto vecchia") e per queste costruzioni il Corano usa il termine صرح (ṣarḥ, letteralmente 'edificio' ma anche 'palazzo'), come detto in accostamento al salire in alto, cosa che riporta al significato originale egizio. Ma c'è anche l'accostamento al fuoco, nonostante sembri improbabile che Maometto conoscesse tanto la parola egizia quanto il significato di quella greca.

 ٢ - l'archeologia non è ancora riuscita a stabilire come siano state costruite esattamente le piramidi, ma tradizionalmente (dai tempi di Erodoto e Diodoro Siculo) le si ritiene fatte per lo più di blocchi di pietra tratti da cave; ciò però lascia irrisolte molte questioni, prima fra tutte quelle su come siano stati intagliati i blocchi, non essendo stato ritrovato né raffigurato alcuno strumento adatto, e su come sarebbero stati trasportati. A partire dagli anni '70 è stata però proposta da vari scienziati (Davidovits, Barsoum, Hobbs) una controversa ipotesi, ancora minoritaria, per cui la tecnica principale sarebbe stata l'assemblamento di blocchi cementizi messi in opera in situ. Per realizzarli (con conoscenze evidentemente più avanzate di quanto finora presupposto) sarebbe stato necessario miscelare e cuocere vari materiali formanti proprio una sostanza argillosa da versare in stampi lignei. Raffermandosi, si sarebbero formati i blocchi calcarei. Fra l'altro, ciò troverebbe delle corrispondenze con l'accertata deforestazione a cui è andata incontro l'area. E poiché oltre alla legna da ardere e per gli stampi sarebbero servite anche enormi quantità d'acqua, sarebbe interessante valutare se il prosciugamento di questo grande corso non sia riconducibile, insieme ad altre concause ancora tutte da scoprire o ampliare, alla stessa ipotesi.

 Un ultimo appunto riguarda l'apparente divergenza sulla funzione principale da attribuire alle piramidi: se per l'egittologia si trattava sostanzialmente di sepolcri regali, per il Corano erano, secondo quanto visto, una sorta di ponti verso il cielo. Ma, al netto di questi corollari narrativi, in entrambi i casi furono costruite sostanzialmente come simbolo del potere divino di cui si fregiavano i faraoni. Anche in questo caso, il Corano riporta un qualcosa a cui la moderna scienza, in questo caso storiografica, è arrivata solo recentemente, attraverso l'acquisizione di conoscenze che erano andate perdute per millenni.

 A questo proposito non rimane che chiudere con un altro passaggio coranico, senza bisogno di ulteriore commento se non che il soggetto narrante, non esplicitato, possono essere ritenuti gli angeli (con un plurale semplice) o Dio (con un plurale maiestatico) mentre l'oggetto è sempre lui, Fir'aūn:

Oggi ti salveremo col tuo corpo, affinché tu sia, per quelli che verranno dopo di te, un segno. Ma in verità la maggioranza degli uomini sono incuranti dei nostri segni. (Q* 10:92)

 * traduzioni mie, letterali, con aggiunte esplicative fra le parentesi quadre.

Immagine illustrativa dello studio, con in evidenza l'altro corso del Nilo. Crediti: Eman Ghoneim et al. 

lunedì 27 maggio 2024

La Divina Scala: similitudini e differenze fra la Divina Commedia e il Libro della Scala

 Come ormai abbastanza noto, esistono diverse affinità fra la Divina Commedia di Dante Alighieri e la letteratura del Libro della Scala (Kitāb al-Mi'rāj), un insieme di testi islamici medievali di cui per comodità parleremo come di un testo unico. Fu infatti uno di questi testi, anonimi ma riportanti sostanzialmente la stessa storia di autore incerto, ad essere tradotto dall'arabo in latino, castigliano e provenzale, alla corte di Alfonso X di Castiglia. Ciò avvenne nella seconda metà del XIII secolo, qualche decennio prima che Dante cominciasse a vergare la sua Divina Commedia, ed è certo che queste traduzioni presero a girare presso gli intellettuali dell'allora Cristianità. Tutto questo è però rimasto sottotraccia, finché all'inizio del '900 diversi studiosi non hanno cominciato a rilevare e divulgare le somiglianze fra i due testi, ipotizzando che Dante avesse attinto direttamente da una delle suddette traduzioni.

 Al giorno d'oggi esistono due scuole di pensiero: quella che continua a negare il collegamento, sempre più minoritaria, e quella che lo afferma. A sua volta in questa corrente c'è chi parla di un'ispirazione, chi di una sorta di plagio, chi di una sorta di tributo esoterico. Questa diatriba è destinata a durare ancora, e si lascia la discussione ai tanti che se ne stanno occupando*. Qua ci limiteremo ad elencare alcune delle più evidenti similitudini e differenze fra i due testi, lasciando al lettore decidere quale sia il rapporto più plausibile fra di essi.

Similitudini.

 La catabasi. Entrambi i testi narrano di un viaggio nell'Aldilà con il protagonista che descrive in prima persona la sua esperienza: nel Libro della Scala è Maometto, nella Divina Commedia è Dante.

 La guida. In entrambi i testi il protagonista ha un compagno che fa da Cicerone principale, ovvero l'arcangelo Gabriele nel Libro della Scala e Virgilio nella Divina Commedia. Entrambi illustrano al protagonista il funzionamento dell'Aldilà. Entrambi a un certo punto devono abbandonare il compagno, cosicché nel Libro della Scala Maometto viene assistito da Michele mentre Dante da Beatrice e infine dalla Madonna.  

 L'Aldilà su tre livelli. In entrambi i testi ci sono due esiti principali, beatitudine eterna o eterna condanna, con però la possibilità di una redenzione in extremis. Se nella Divina Commedia il Purgatorio è dato come elemento strutturale, benché sostanzialmente inedito, nel Libro della Scala è creato da Dio grazie all'intervento di Maometto che chiede e ottiene che un certo numero di anime sia continuamente perdonato.

 Il contrappasso. La legge divina secondo la quale le punizioni dei dannati sono proporzionali e ispirate ai loro peccati, è presente in entrambi i testi. Ancor prima, è chiaramente (seppur simbolicamente) presente nel Corano, ma non nella Bibbia.

 La scala. Nel Kitāb al-Mi'rāj la scala è il principale mezzo con cui Maometto ascende al Cielo, nella Divina Commedia compare come elemento strutturale in vari punti, dall'Inferno al Paradiso. In entrambi i testi può essere intesa come rappresentazione dell'ascesa mistica.

 Il trasporto. In entrambi i testi il protagonista è per certi tratti trasportato da figure sovrannaturali, notabilmente il Burāq nel Libro della Scala e Caronte nella Divina Commedia.

 Gli incontri con figure importanti. Entrambi i testi presentano incontri e dialoghi nell'Aldilà con figure religiose e storiche; nel Libro della Scala Maometto incontra profeti e patriarchi, e nella Divina Commedia Dante incontra, oltre a profeti e patriarchi, anche personaggi della mitologia classica e dalla storia medievale.

 La porta dell'Inferno. Nel Libro della Scala c'è una porta che fa da entrata per l'Inferno e vi è incisa la shahādah, testimonianza di fede islamica. Ciò simboleggia che tutto, compreso l'Inferno, rientra nel piano divino. Dopo esservi passato attraverso, Maometto incontra un angelo che fa da tesoriere ovvero guardiano dell'Inferno. Nella Divina Commedia Dante incontra Pluto, dio della ricchezza nella mitologia classica che fa da guardiano del quarto cerchio dell'Inferno, e questi pronuncia la famosa frase: Pape Satàn, pape Satàn aleppe. La derivazione è incerta ma una delle più plausibili è dall'arabo Bāb al-Shaytān, che vuol dire "porta del diavolo", mentre non vi è consenso su come interpretare aleppe: una delle possibilità è che stia per la lettera ebraica alef, ovvero per quella araba 'alif, oppure che sia da ricondursi all'imperativo labba, fermarsi, sempre in arabo.

 La figura femminile. Nella Divina Commedia la figura di Beatrice assume progressivamente delle caratteristiche celestiali, e ugualmente nel Libro della Scala a Maometto viene mostrata la sovrannaturale figura femminile di una urì. In entrambi i casi sono figure connesse al divino.

 La visione di Dio. Entrambi i protagonisti si dichiarano impossibilitati a descrivere ciò che vedono una volta arrivati al cospetto di Dio. Se però nella Divina Commedia Dante aggiunge successivamente delle descrizioni simboliche, nel Libro della Scala Maometto si ferma alla constatazione dell'impossibilità. In entrambi i testi c'è però lo stesso elemento coreografico che, pur non essendo esso stesso Dio, caratterizza la visione: un nugolo di angeli che ruotano vorticosamente. 

 L'uso di simbolismi. In generale, entrambi i testi fanno largo uso di un linguaggio allegorico per rappresentare concetti religiosi e filosofici.

Differenze.

 Il Libro della Scala è in prosa, la Divina Commedia in versi.

 La Divina commedia è notevolmente più estesa del Libro della Scala.

 Il Libro della Scala è stato scritto in arabo classico, lingua comune nell'islam medievale a tutti gli ambiti del sapere, mentre la Divina Commedia è vergata in volgare italiano, una lingua che a livello letterario stava appena esordendo e che per questo si distacca sia dalla letteratura precedente, tanto sacra quanto profana, sia da quella coeva di pertinenza puramente sacrale e prescientifica.

 Il tono del Libro della Scala rimane sempre sacrale, formale, mentre quello della Divina Commedia mischia sacro e profano, quando non diventa addirittura triviale.

 Il viaggio inizia nel Libro della Scala con Maometto che viene chiamato da Gabriele quando si trova in un'abitazione, mentre nella Divina Commedia con Dante che si trova disperso in una foresta. Tuttavia in entrambi i casi si suggerisce che il viaggio è anche da intendersi come onirico.

 Nel Libro della Scala Maometto viene primariamente trasportato dal Burāq, mentre nella Divina Commedia Dante incontra successivamente dei trasportatori.

 Nel Libro della Scala (come prima ancora nel Corano) sono gli angeli ad amministrare le beatitudini e ad impartire le punizioni, mentre di queste ultime nella Divina Commedia si occupano i demoni. Nel Libro della Scala, tuttavia, gli angeli che si occupano delle punizioni hanno caratteristiche che potremmo definire demoniache.

 Nella Divina Commedia Dante rimane sostanzialmente uno spettatore, mentre nel Libro della Scala Maometto è parte attiva del racconto: grazie alle sue richieste a Dio si stabilisce la possibile redenzione post mortem (ovvero il Purgatorio) e si riduce il numero di preghiere giornaliere, che passa da cinquanta a cinque.

 Nel Libro della Scala la figura femminile celestiale (la urì) è conseguenza e non causa della visione divina, mentre nella Divina Commedia la Beatrice idealizzata e la Madonna giocano il ruolo di tramite necessario. Va però notato che quando Maometto viene invitato da Gabriele, e quando torna, ovvero nel mentre del viaggio onirico, si trova a casa della prima donna con cui si sarebbe voluto sposare, la quale fu data in sposa ad un altro uomo a causa della povertà di entrambi. Il suo racconto inizia con queste parole: "Ero a casa di Fakhitah...". Curiosamente, le biografie di Dante ci dicono che neanch'egli si poté mai sposare con Beatrice.

 Nel Libro della Scala Maometto incontra Gesù, e vi interagisce come fa con gli altri profeti, mentre nella Divina Commedia ciò non avviene con Dante. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe non conoscendo l'opera, né la figura né il nome di Gesù sono presenti, se non, secondo gli studiosi, in maniera simbolica.

 Nella Divina Commedia il racconto è tutto in prima persona e si chiude al culmine del viaggio. Nel Libro della Scala c'è una brevissima introduzione, un ritorno alla condizione iniziale e un epilogo in terza persona con Maometto che il giorno dopo prende a raccontare la sua esperienza notturna.

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 Come note finali aggiungo delle considerazioni. Nel Medioevo non esisteva il concetto di plagio, e un possibile rapporto diretto fra i due testi non toglierebbe niente, come taluni temono, alla grandezza della Divina Commedia, ma anzi la mostrerebbe sotto una luce nuova e volendo più intensa. Piuttosto, al tempo esistevano i concetti di eresia e apostasia, accuse per le quali si rischiava la vita. Oltre a questo, un qualunque testo con un simile marchio avrebbe potuto circolare ancor meno di altri che, come il Libro della Scala o i trattati di Averroè ed Avicenna, erano comunque considerati d'importazione. È quindi perfettamente logico che, di qualunque rapporto si possa trattare, questo sarebbe dovuto essere coperto sotto ’l velame de li versi strani. Parimenti, è comprensibile che permangano reticenze ad accettare l'eventuale cambio di un paradigma che dura da secoli. Ma ciò non deve impedire che ora questo avvenga, perché i tempi sono maturi per trovare nella Divina Commedia dei significati che possono parlare al passato quanto al presente. E perché gli strumenti per farlo si possono ritrovare proprio nel mezzo del cammino. Certo, a meno che non si sia così concentrati sul presente da non aver interesse a salire a le stelle.

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* Fra i tanti studi segnalo: Dante e l'Islam. La controversia sulle fonti escatologiche musulmane della Divina Commedia, V. Pucciarelli (2012, Irfan); Il libro della Scala di Maometto, A. Longoni (2019, BUR); Dal Corano alla Divina Commedia. Un mistero ancora irrisolto nella storia della letteratura, O.A. Bologna, H. Haidar (2021, Diarkos); Così il Profeta scalò i cieli. Dalle rielaborazioni arabe e persiane del mi‘rag di Muhammad al Libro della Scala e la Commedia di Dante, C. Saccone (2022, Ist. per l'Oriente C.A. Nallino).

Opera calligrafica di Eyas Alshayeb conservata presso il Centro di cultura italiana Dante Alighieri ad Amman (Giordania).

sabato 11 maggio 2024

Corrispondenze fra i colori nel Corano e il processo visivo nell'Uomo

Abstract: rilevazione di corrispondenze fra caratteristiche del testo coranico e nozioni scientifiche moderne, in questo caso ascrivibili in particolare alla fisiologia umana e nello specifico al processo visivo.

 Nel testo del Corano sono 7 i colori citati col loro nome proprio:

 - bianco, in arabo 'abyaḍ (versetti 2:187, 7:108, 20:22, 26:33, 27:12, 28:32, 35:27, 37:46, 3:106, 3:107, 12:84);

 - nero, in arabo 'aswad (2:187, 16:58, 35:27, 39:60, 43:17, 3:106, 3:106);

 - verde, in arabo 'akhḍar (6:99, 12:43, 12:46, 18:31, 22:63, 36:80, 55:76, 76:21);

 - rosso, in arabo 'aḥmar (35:27);

 - giallo, in arabo 'aṣfar (2:69, 30:51, 39:21, 57:20, 77:33);

 - blu, in arabo 'azraq (20:102);

 - grigio¹, in arabo shayb (19:4, 30:54, 73:17). 

Visualizzazione dei colori menzionati dal Corano, col numero romano di ricorrenze per ognuno. A differenza degli altri, il grigio è rappresentato dallo sfondo, e il numero sono le bande verticali fra le coppie. Non si sarebbe potuto infatti usare uno sfondo meno "neutro". Oltre a questo, c'è da notare che ogni numero è indicato col rispettivo colore complementare, mentre il grigio assoluto in teoria non ne ha uno. Perciò ho scelto arbitrariamente lo stesso del bianco, ma, come vedremo, non è una scelta del tutto arbitraria.

 Va subito precisato che i colori saranno considerati (perché così ci invita a fare l'analisi) in senso astratto, ideale, e che idealmente il bianco assoluto non è un pigmento, essendo invece la somma di tutti i colori dello spettro visibile, ma è comunque considerabile come un colore nel senso visivo della percezione. Viceversa il nero assoluto è in astratto la sottrazione di tutti i colori dello spettro visibile, ma è ugualmente considerabile come un colore nello stesso senso. Per analogia, il discorso è simile per il grigio assoluto, che può essere considerato come un prodotto del rapporto fra nero e bianco, ma che noi percepiamo comunque come un colore. Vedremo che è proprio con la percezione umana che troveremo le prime corrispondenze, e che è possibile trovare una corrispondenza specifica anche per la particolarità della coppia bianco-nero, ovvero anche per quella del grigio, cioè in definitiva per la dicotomia luce-buio.

 Oltre ai 7 colori citati, è possibile rintracciare il richiamo ad altri ma in modo indiretto, allusivo: ad esempio il versetto 55:37 usa il costrutto وردة كالدهان (letteralmente "una rosa come tinta") per descrivere un violaceo cielo escatologico; 55:64 riporta il participio مدهامتان (che ha che fare con l'oscurità) per descrivere il fitto ombreggio verdeggiante dei giardini paradisiaci; 87:5 per rappresentare l'immagine dei pascoli che appassendo diventano fieno utilizza l'aggettivo أحوى, a volte tradotto come "marrone" o "color ruggine" perché indicante qualcosa che imbrunisce; 35:27 usa il costrutto غرابيب سود (letteralmente "[come di] corvi neri") per descrivere il nero corvino di certe montagne.

 Poiché le allusioni sono comunque vaghe e non usano i nomi precisi dei colori, o vi si aggiungono per evocare delle sfumature, hanno poca e nessuna consistenza le rilevazioni di "miracoli" del Corano che si basassero su di esse: dalla supposta corrispondenza coi colori dell'arcobaleno scegliendo selettivamente quali delle sfumature aggiungere al conto, a quella con le ripetizioni del termine لون, colore, passando per quella con la sintesi additiva e sottrattiva, sempre tramite scelte selettive. Simili proclami, e ne ho riscontrati parecchi, si fanno spesso e volentieri beffe della vera scienza a partire dal fatto che solitamente non considerano i colori per quello che sono: lunghezze d'onda senza soluzione di continuità, che solo per comodità isoliamo e identifichiamo con quelle più rappresentative.

 Filosoficamente, e non solo, si può affermare che una tavolozza dei colori universale in sé non esiste. Fisicamente, esclusa quindi la percezione soggettiva, i colori non sono altro che i diversi prodotti del rapporto fra riflessione e assorbimento della luce. È anche vero però che, in proposito, c'è qualcosa di non del tutto relativizzabile: la biologia, e, nello specifico, il processo visivo fisiologico nell'Uomo.

 Quel che porto primariamente all'attenzione, in modo inedito a quanto ho potuto verificare, è che i colori nominati esplicitamente dal Corano corrispondono, con l'aggiunta del grigio, a quelli della teoria dell'opponenza cromatica, o teoria del processo opponente, proposta per la prima volta nel 1872 dal fisiologo tedesco Ewald Hering. Ad oggi questa teoria, che integra la teoria tricromatica di Young-Helmholtz, rimane uno dei pilastri fondamentali per la comprensione della percezione umana del colore, spiegandola attraverso un meccanismo di antagonismo fra 3 coppie:

 - rosso-verde;

 - blu-giallo;

 - bianco-nero.

 Il grigio può e deve essere considerato come un caso a parte da ricomprendere nella coppia bianco-nero, ma come evidente per il resto sono gli stessi colori nominati esplicitamente dal Corano. Per cui, con metodo, andiamo a sondare la teoria per capire meglio i possibili aspetti della corrispondenza.

 Hering sostanzialmente osservò che certi colori sembrano essere complementari ad altri. Ad esempio, non possiamo percepire simultaneamente una luce rossastra e una verdastra nello stesso punto del campo visivo. O, ancora, non possiamo parlare di giallo tendente al blu e viceversa, perché questi colori si escludono vicendevolmente, mentre possiamo parlare di giallo tendente al rosso o di blu tendente al verde. Per il bianco e il nero possiamo notare che luminosità e buio sono inversamente proporzionali.

 C'è da dire che la scienza non è ancora giunta a capire l'esatto funzionamento di questi processi. Hering arrivò alla teoria grazie soprattutto all'osservazione fenomenica, benché supportata da esperimenti, e ipotizzò l'esistenza di cellule gangliari retiniche antagoniste. Studi successivi parlano di altri tipi di cellule coinvolte nei processi: amacrine, bipolari, orizzontali, interneuroni corticali. Sebbene ognuno di questi studi sia supportato da proprie evidenze, il modo preciso in cui queste cellule operino e/o interagiscano fra loro per generare la percezione del colore è ancora oggetto di indagine.

 Sono state mosse anche delle critiche alla teoria formalizzata da Hering, prime fra tutte quelle che si basano sulla mancata comprensione dell'esatto funzionamento biologico dei processi, ma tuttavia ciò non ne mina la validità generale: che sia determinata da cellule specifiche, dall'interazione di varie attività o da operazioni successive a livello puramente neurale, la teoria dell'opponenza cromatica continua a spiegare come il cervello umano interpreta i segnali che gli giungono dall'apparato visivo, integrando così la teoria tricromatica di Young-Helmholtz secondo cui la percezione dei colori è determinata da tre tipi di fotorecettori (coni) che sono stati effettivamente individuati nella retina umana, ovvero quelli per il verde, quelli per il rosso e quelli per il blu. In realtà esiste anche la visione monocromatica, assicurata principalmente da un altro tipo di cellule fotosensibili presenti nella retina: i bastoncelli. Il loro lavoro completa quello dei coni, essendo più sensibili alla luce e al movimento proprio perché dedicati solo alle variazioni di luminosità e non ai dettagli cromatici.

 Quindi la posizione attualmente più accreditata presso la comunità scientifica è che teoria tricromatica e teoria dell'opponenza cromatica non siano in opposizione ma spieghino, insieme anche alla monocromia, il funzionamento generale del processo visivo attraverso due fasi successive: la teoria della visione tricromatica spiega come, insieme alla visione monocromatica, avviene la conversione della luce in segnali elettrici da inviare al cervello, mentre l'opponenza cromatica spiega come vengono interpretati i segnali.

 In definitiva si può sintetizzare che le 3 coppie antagoniste identificate dalla teoria dell'opponenza cromatica rappresentano la nostra codifica neurale delle informazioni cromatiche. E queste 3 coppie contengono gli stessi colori nominati esplicitamente dal Corano, con solo l'aggiunta del grigio che si può ricomprendere nella coppia bianco-nero.

Schematizzazione del processo visivo nell'essere umano.

 Stante quanto detto, ci sono da vagliare, a conferma o confutazione di corrispondenze con la nostra biologia, i rapporti numerici fra le ricorrenze dei colori, se ve ne sono. 

 Poiché il testo del Corano è tradizionalmente suddiviso in versetti, e poiché la lingua araba funziona per radici da cui originano parole di diverso significato, per vagliare questi rapporti bisogna scegliere un metodo ed attenervisi, non mischiarne vari come spesso mi capita di constatare nelle rilevazioni di "miracoli". Quello in assoluto più attendibile (poiché è possibile che il rasm originale del Corano non contenesse suddivisioni dei versetti o comunque di non tutti) è quello che tiene conto solo delle singole ricorrenze, e nella scelta fra l'utilizzare le radici o i significati (livello tecnicamente e sinteticamente definibile come maṣdar) scegliamo quest'ultimo perché anch'esso più preciso². Risulta quindi che il numero di ricorrenze per ogni singolo colore (ovvero il significato preciso del colore che origina da radici da cui derivano anche parole non attinenti direttamente al colore) è il seguente:

- bianco, 11;

- nero, 7;

- verde, 8;

- rosso, 1;

- giallo, 5;

- blu, 1;

- grigio, 3. 

 Ora osserviamo se ci sono dei rapporti. 

 Un primo dato che salta all'occhio è che le 3 ricorrenze del grigio danno un multiplo di tutte le coppie della teoria dell'opponenza cromatica: il 18 che si ottiene con la somma della coppia bianco-nero, il 9 che si ottiene con la somma della coppia verde-rosso e il 6 della coppia giallo-blu, cosa che rafforza la corrispondenza. 

 Una qualche ratio sembra esserci, ma una prova più solida verrebbe dal riscontrare un rapporto incrociato con la teoria tricromatica e/o con la visione monocromatica. Possiamo ripartire da quest'ultima, dal fatto che funzioni senza fare distinzioni fra i colori ovvero fra le varie lunghezze d'onda. Insieme alla particolarità teorica della coppia bianco-nero, cioè della dicotomia luce-buio, ciò suggerisce di fare delle comparazioni fra questa coppia e le altre due, vagliando quindi se ci possa essere una qualche corrispondenza su questo. Una prima annotazione apparentemente banale è che, separata la coppia bianco-nero dalle altre, i colori rosso e blu, ovvero i complementari di verde e giallo, ricorrono entrambi una sola volta. Ma siamo sempre all'interno della teoria dell'opponenza cromatica, mentre quelli che si stanno ricercando sono dei rapporti con le altre fasi del processo visivo. 

Schematizzazione dell'opponenza cromatica che evidenzia tre caratteristiche: il rapporto diverso fra la coppia bianco-nero e le coppie verde-rosso e giallo-blu; la gradualità con cui si passa da un estremo ideale di una coppia all'altro; la centralità del grigio.

 Torniamo sul grigio, questo colore considerato neutro e generalmente insignificante. Abbiamo detto che è una via di mezzo fra bianco, che idealmente rappresenta la luce, e nero, che ne rappresenta l'assenza cioè il buio. Il grigio assoluto idealmente riflette tanta luce quanta ne assorbe. Quindi partendo da un perfetto bilanciamento di presenza e assenza, finché non si arriva al buio totale c'è sempre una certa percentuale di luce. E fra l'altro il Corano impiega per il grigio la sola parola shayb che in una vasta gamma (رمادي, grigio generico, غامق, grigio scuro, أخزر, grigio verdastro) indica con precisione un grigio tendente al bianco. Ha quindi perfettamente senso, e anzi il Corano sembra suggerirlo, sommare le 3 ricorrenze del grigio con le 11 del bianco: otteniamo 14, e consideriamo questa cifra come rappresentante non più il bianco ma la luce. 14 è il doppio di 7, numero delle ricorrenze del nero che in questo caso rappresenta il buio.

 Ora, il buio è assenza, non-esistenza, non-presenza, e ugualmente la teoria tricromatica ci dice che non esistono i coni del giallo. Ciò porta a confrontare ciò che "esiste" con ciò che "non esiste" ovvero non è presente.

 Prima di tutto troviamo che le ricorrenze dei colori verde, rosso e blu, cioè della visione tricromatica, danno come cifra 10, e 10 è il doppio delle 5 ricorrenze degli inesistenti coni del giallo. Come 14 lo è di 7. Abbiamo trovato una ratio, ma non è tutto. Le 7 ricorrenze del buio e le 5 del giallo insieme producono la cifra 12. Tutte le altre ricorrenze messe insieme, ovvero quelle del bianco, del grigio e dei tre colori della visione tricromatica, producono invece la cifra 24. Anche qua abbiamo un doppio e una metà. 

 Viene fuori la seguente proporzione fra la coppia bianco-nero (che volendo rappresenta la visione monocromatica), le altre due coppie (che volendo rappresentano la visione tricromatica), e la loro somma totale (che volendo rappresenta l'intero processo di conversione della luce in segnali elettrici da inviare al cervello): 

14 : 7 = 10 : 5 = 24 : 12

 Un rapporto non casuale pare esserci, e lo si trova proprio mettendo in conto tanto la visione tricromatica quanto la particolarità della percezione della luminosità, ovvero la visione monocromatica. Nonché, ancor prima, le proprietà fisiche della luce stessa. E oltretutto questo rapporto è di 2 a 1: non è scontata la corrispondenza con il fatto che noi umani, come la maggior parte dei vertebrati, percepiamo un'immagine unica a partire da un apparato visivo doppio, perché, ad esempio, gli insetti, i crostacei e la maggior parte degli aracnidi hanno occhi compositi. E chissà, esseri senzienti su altri pianeti magari hanno un rapporto di 4 a 1 o di 13 a 18. La nostra è quindi una visione binoculare, che fra l'altro è caratterizzata da 3 diversi fenomeni come 3 sono le proporzioni equivalenti trovate: percezione simultanea; fusione; stereopsi. Ognuno ha a che fare col rapporto di 2 a 1 e rappresenta anche uno stadio precedente al successivo, necessario per arrivare infine alla composizione dell'unica immagine tridimensionale: la percezione simultanea è la capacità di entrambi gli occhi di apprezzare e trasmettere nello stesso istante due immagini parzialmente sovrapposte; la fusione è la capacità di coordinare gli assi visivi e formare, da due immagini affette da diversa parallasse, una rappresentazione visiva singola; la stereopsi, anche detta visione tridimensionale, è la capacità del cervello di fare valutazioni fra le due diverse immagini per trarne informazioni sulla profondità e la posizione spaziale degli oggetti.

 Non essendo però da escludere che si possano trovare altri rapporti fra i numeri, si tiene per buona la sola rilevazione del rapporto di 2 a 1 e si lascia questa eventuale ulteriore corrispondenza, come anche quella con la tridimensionalità, ad ulteriori analisi.

Conclusioni.

 a) Il Corano nomina i colori di quella che, sulla scorta della teoria dell'opponenza cromatica di Hering, è sinteticamente definibile come la nostra codifica neurale delle informazioni cromatiche. Oltre a questi, nomina esplicitamente solo il grigio, che può essere ricompreso nella coppia bianco-nero della teoria.

 b) Si possono individuare dei rapporti numerici fra le ricorrenze di questi colori che non solo rafforzano la corrispondenza con la teoria dell'opponenza cromatica, ma contemporaneamente trovano delle corrispondenze anche con:

 - la teoria tricromatica di Young-Helmholtz, ovvero la presenza nella retina di tre tipi di coni;

- la visione monocromatica, con riscontro nella presenza dei bastoncelli oltre ai coni; 

- il fatto che il processo visivo umano è caratterizzato da una visione binoculare.

 c) In seconda battuta, dopo aver visto ciò che si è visto, possiamo riconsiderare i passaggi allusivi sulle sfumature come concettualmente integrativi: quanto riscontrato appare come una rappresentazione schematica, per step, ma il prodotto è che il processo visivo umano copre uno spettro da una lunghezza d'onda di circa 380 nanometri a una di circa 780, senza scalini. L'ulteriore alludere del Corano alle sfumature di colore aumenta quindi la precisione delle corrispondenze, perché collima col fatto che nella realtà non percepiamo tanto i colori per come se n'è parlato, ovvero per come li abbiamo estratti dal testo coranico e messi a comparazione con la spiegazione teorica di fenomeni fisici³, quanto diverse gradazioni degli stessi.
 
 d) Queste rilevazioni non escludono che ci possano essere altre corrispondenze specifiche, e anzi suggeriscono che sarebbero opportune ulteriori analisi.

 Se si fosse trovato solo a) sarebbe stato possibile, per quanto improbabile, parlare di coincidenze, ma dopo b) si può scartare come pensiero tendente al magico il ritenere che sia tutto frutto di un caso evidentemente "intelligente". Ancor meno sono da prendere in considerazione le eventuali motivazioni di chi non volesse prendere in considerazione quanto visto, o volesse giustificarlo sulla base di vuoti della storiografia da colmare con ricostruzioni compatibili: non è noto che al tempo della redazione del Corano, il VII secolo, fosse conosciuta alcuna delle nozioni di cui si è trovata corrispondenza, se non forse quella intuitiva dell'inversa proporzionalità fra luminosità e buio. Si potrebbe invece congetturare che, così come ci è arrivato Hering partendo dal ragionamento, poteva arrivarci anche Maometto in meditazione, o chi per lui, pur senza esperimenti e conoscenze avanzate. Ma per certo sappiamo solo che prima del 1872 nessuno era arrivato a formalizzare la teoria dell'opponenza cromatica, né poco prima quella della tricromia. Quindi anche spiegazioni simili reggerebbero ben poco. Oltre alla potenza della meditazione, che per altro non metto in discussione, si potrebbe tirare fuori la solita speculazione fantarcheologica per cui, ad esempio, qualche sconosciuto gruppo di sapienti era in possesso di informazioni di qualche avanzata civiltà precedente. Ma anche qua non c'è alcuna prova tangibile a supporto. C'è poi la "spiegazione" islamica tradizionale, per cui si tratterebbe di un miracolo divino e chiusa la questione. Oppure quella di una fede in opposizione a quella islamica, per cui si tratterebbe di un qualcosa di diabolico e chiusa ugualmente la questione, ma in negativo.

 Non avendo noi a disposizione altre fonti e risorse attendibili, ci rimane la spiegazione del Corano stesso, questo enigmatico testo il cui ispiratore (ma non redattore) affermava di ricevere i suoi messaggi da informatori, nominalmente i malā'ika cioè gli angeli, provenienti da molto, molto lontano. Questa lontananza è ovviamente un eufemismo, perché nei messaggi gli informatori dichiarano di poter tranquillamente viaggiare 50'000 anni nello spazio (cfr. La Guida). Sarebbe assurdo crederci, e immagino lo sia per chiunque sentisse parlare per la prima volta di queste cose, ma per me sono semplicemente troppi gli OOPArt (Out Of Place Artifacts, anacronismi) incontrati in anni di analisi del testo coranico. Ho vagliato anche migliaia di false rilevazioni, e io stesso ne ho dovute scartare di mie dopo averci trovato delle falle metodologiche o concettuali (cosa che sono sempre pronto a fare) ma quelle effettive sono bastanti per porci l'interrogativo di quale sia la vera origine del Corano, inspiegabile per la storiografia ufficiale e solo in parte per quella islamica tradizionale, che almeno mette in conto l'intervento degli angeli. Quindi fra tutte le spiegazioni esposte, anche in questo caso ritengo la spiegazione fornita dal Corano, ovvero quella secondo cui - grattata via l'interpretazione tradizionale - c'è stato un cosiddetto esointervento, la paradossalmente meno assurda.

 Per ulteriori conferme non posso che rimandare ancora una volta al mio manuale.

 ¹ A quanto ho potuto appurare il grigio è quasi sempre omesso dalle casistiche sui colori del Corano, tanto tradizionali quanto moderne. Non è forse un caso, essendo intuitivamente il grigio una sorta di non-colore. Per coerenza, però, se si considerano colori il bianco e il nero bisogna considerare tale anche il grigio. Notare che la parola shayb non è l'unica che l'arabo classico conosce per nominarlo, ma è l'unica impiegata dal Corano.

 ² Nello specifico sono state riportate le due ricorrenze del nero nel versetto 3:106, e sono stati esclusi i vocaboli: بيض (uova) del versetto 37: 49, derivante dalla stessa radice di 'abyaḍ; سادت/سيد (signore/signori) dei versetti 3:39, 12:25, 33:67, derivanti dalla stessa radice di 'aswad; le varianti di حمار (asino) dei versetti 2:259, 16:8, 31:19, 62:5, 74:50, derivanti dalla stessa radice di 'aḥmar.

 ³ Su questo particolare punto, ovvero sul necessario utilizzo di concetti metafisici da parte della scienza, e più specificatamente sul rapporto fra scienza e Corano, consiglio la lettura di almeno questo paragrafo del mio manuale messo a disposizione come paperMetafisicità e scientificità del Corano.

venerdì 10 maggio 2024

Sull'arabo coranico

A differenza di quanto molti pensano all'esterno del mondo islamico, ma in parte anche all'interno, l'arabo coranico non è la lingua oggi parlata dagli arabofoni di ogni latitudine, né l'artificiale lingua araba standard moderna, ovvero la fuṣḥā, e addirittura neanche quella classica letteraria, la fuṣḥā at-turāthīyah. Certo, si basano tutte sull'arabo coranico, distanziandosene progressivamente, ma questo è considerabile a tutti gli effetti come una lingua ormai solo liturgica. Generalizzando, si dice che l'arabo utilizzi un enorme vocabolario di milioni di termini, comprensibile andando il mondo arabofono dalla Siria alle isole Comore e dall'Oman alla Mauritania, mentre si stima (poiché il concetto di parola singola nella lingua araba è vago e un calcolo definitivo non si è ancora imposto) che l'arabo coranico sia composto da un vocabolario di circa 7mila diversi termini, contando tutte le possibili varietà ascrivibili allo stesso lemma. Fra questi, alcuni si ripetono talmente tante volte che secondo una consolidata tradizione basta conoscerne qualche centinaio (sottintendendo la conoscenza della grammatica araba) per comprendere il significato letterale dell'80% del testo coranico. Allego le statistiche e il parere in merito dato da Kais Dukes (رَحِمَهُ اللَّهُ), docente di linguistica computazionale presso l'Università di Leeds e autore del Quranic Arabic Corpus, ad oggi una delle risorse più complete per le statistiche linguistiche sul Corano: 

Total number of space-seperated words = 77,430

Number of *unique* surface forms (i.e. space-separated word-forms including clitics) = 18994

Number of unique words by *stem* = 12183

Number of unique words by *root* = 1685 (not necessarily a great metric for unique word counting, e.g. pronouns have no Semitic root)

Number of unique words by *lemma* = 3382 (excluding verbs, and other words where lemma is not annotated).

[...]

As an estimate, I would say that there are at most 7,000 unique "words" in the Quran in the sense of what you would need to have a lexicon with wide-ranging coverage for the Quran. Something also interesting to note, is the Zipfian distribution. A handful of words (e.g. the top 100 words) will cover a very large percentage of the actual Quran, i.e. most verses. (the 80/20 rule).

Fonte: Number of Unique Words in the Quran (quickestwaytoquran.blogspot.com)

sabato 4 maggio 2024

Glossario degli arabismi in Dune

Particolare dalla copertina della prima edizione italiana di Dune (Editrice Nord, 1973). 
 Specialmente per caratterizzare il popolo dei Fremen, figura centrale nel fantascientifico ciclo ideato dallo scrittore statunitense Frank Herbert, nell'universo di Dune si attinge a piene mani dall'immaginario percepito e proprio della cultura arabo-islamica. Questo è un piccolo e non onnicomprensivo glossario delle parole utilizzate da Herbert nel primo omonimo romanzo, pubblicato nel 1965 da Chilton Books come raccolta delle novelle uscite a partire dal 1963 sul magazine Analog, che riprendono direttamente concetti islamici e/o termini arabi, oppure ne utilizzano il suono con un altro significato, o ancora sono costruite modificando termini esistenti per dar loro la coloritura ricercata.
 Dei termini che hanno un corrispettivo preciso, o che hanno un significato molto simile, si indicherà solo la traslitterazione, mentre per gli altri si suggerirà da dove è possibile che Herbert abbia preso ispirazione. 

ALAM AL-MITHAL: (da 'Ālām al-Miṯāl) mistico mondo delle similitudini dove non esistono limitazioni fisiche .

AL-LAT: (da al-Lāt, nome di una divinità preislamica) sole primario dell'Umanità e di ogni pianeta.

AQL: (da 'Aql) prova della ragione.

ARRAKEEN: (forse da ar-Raqīn, schiavitù) prima colonia su Arrakis e capitale planetaria.

ARRAKIS: (da Ā'rāq, dune) il pianeta un tempo conosciuto come Dune.

AULIYA: (da Auliya, plurale di Walī, devoto) tra i Zensunni, donna devota a Dio.

AYAT: (da Ayat, segno, usato anche per i versetti del Corano) segni della vita.

BARAKA: (da Baraka, benedizione, potere spirituale) santone dotato di poteri magici.

BASHAR: (forse dal nome comune arabo) ufficiale Sardaukar.

BI-LA KAIFA: (in arabo letteralmente "senza come") espressione Fremen di chiusura.

BOURKA: (da Burqa) mantello isolante dei Fremen.

BURHAN: (da Burhān) prova della vita.

DAR AL-HIKMAN: (da Dār al-Hikma) scuola di interpretazioni o traduzioni religiose.

DJINN: (da Jinn) spiriti dell'aria.

EL-SAYAL: (forse da al-Sayāl, torrente) pioggia di sabbia in una tempesta di Coriolis su Arrakis.

ERG: (dal termine omonimo, derivazione di Ā'rāq, dune) deserto su Arrakis.

FIQH: (da Fiqh, la giurisprudenza islamica) conoscenza, regola religiosa; una delle leggendarie fonti della religione dei Zensunni.

FEDAYKIN: (da Fedāyin) commando Fremen votato alla morte pur di riparare un torto.

HAJJ: (da Hajj) pellegrinaggio.

HAJRA: (da Hijra, emigrazione, notoriamente quella di Maometto da La Mecca a Medina) viaggio nel deserto.

HAL YAWM: (plausibilmente da al-Yaūm, oggi, giorno) esclamazione Fremen di soddisfazione.

IBAD: (forse da Ibāḍiyya, terza branca tradizionale dell'islam primigenio) colorazione bluastra degli occhi data da un'alimentazione ricca di melange.

ICHWAN BEDWAIN: (da Ikhwan, fratellanza, e Badawī, beduino)  fratellanza dei Fremen.

IJAZ: (forse dal nome della regione araba Hijaz) profezia.

ILM: (da 'Ilm) teologia; una delle leggendarie fonti della religione dei Zensunni.

ISTISLAH: (forse da Istislām, sottomissione) regola di comportamento in guerra.

JIHAD: (da Jihād) guerra religiosa.

KITAB AL-IBAR: (forse da Kitāb al-ibār, letteralmente "libro dei pozzi") manuale Fremen che unisce le regole per la sopravvivenza su Arrakis con quelle religiose.

KULL WAHAD: (da Kull wāhad, ognuno) esclamazione Fremen di sorpresa.

LISAN AL-GAIB: (probabilmente da Lisān al-ghayb, voce dell'invisibile) la Voce di un Altro Mondo delle leggende messianiche Fremen (vedi MAHDI).

MAHDI: (da Mahdī, figura escatologica islamica simile ad un messia) nelle leggende Fremen, Colui che ci condurrà in paradiso (vedi LISAN AL-GAIB).

MASHAD: (forse da Mashḥad, spettacolo) prova d'onore.

MAULA: (da Mawlā, padrone) schiavo.

MIHNA: (da Miḥna, prova) stagione delle prove.

MISH-MISH: (da Mishmish) albicocche.

MISR: (da Miṣr, Egitto) termine storico dei Fremen per designare se stessi.

MUAD'DIB: (da Dhi'b) topo del deserto di Arrakis e nome di battaglia scelto da Paul Atreides.

MUDIR: (da Mudīr, direttore) chi ha l'incarico di guidare.

MU ZEIN WALLAH: (forse dal turco Muezzin e da Wallāh, per Dio!) espressione di maledizione Fremen.

NAIB: (forse da Na'ib, vice) giuramento di un capo Fremen.

QANAT: (da Qanāt) canale d'acqua.

QUIZARA TAWFID: (forse da Tawfīq, guida divina) sacerdote Fremen.

RAMADHAN: (da Ramadhān) periodo di digiuno e preghiera di una religione antica, osservato dai Fremen.

RUH: (da Rūh, spirito) nelle credenze Fremen, parte dell'individuo che ha sempre radici nel mondo metafisico (vedi ALAM AL-MITHAL).

SAYYADINA: (in arabo "signori") accolito femminile nella gerarchia religiosa dei Fremen.

SHAI-HULUD: (forse da Shay', cosa, e ūlūd, nato) i giganteschi vermi delle sabbie di Arrakis.

SHAITAN: (da Shayṯān) diavolo.

SIRAT: (da ṣiraṯ) passaggio verso il paradiso descritto nella Bibbia Cattolica Orangista, testo sincretico che raccoglie le credenze delle religioni antiche.

SOOK: (da Sūq) nome dei mercati Fremen.

SUBAKH UL KUHAR: (da ṣabāḥ al-khair, buon giorno) espressione Fremen per chiedere come si sta (vedi SUBAKH UN NUR).

SUBAKH UN NUR: (da ṣabāḥ an-nūr, letteralmente "mattina di luce", risposta a "buon giorno") risposta formale all'espressione SUBAKH UL KUHAR.

TAHADDI: (da Taḥaddī) sfida.

TAHADDI AL-BURHAN: prova finale senza appello.

TAQWA: (dall'omonimo termine che vuol dire "timor di Dio") la richiesta divina a un mortale e la paura che questa provoca, ovvero il prezzo della libertà o qualcosa di grandissimo valore.

ULEMA: (dal Ulemā', dotti) iniziato alla teologia Zensunni.

UMMA: (da Ummah, comunità islamica) appartenente alla fratellanza dei profeti; utilizzato anche in modo spregiativo per indicare i fanatici religiosi.

USUL: (da Uṣūl, principi) base del pilastro, appellativo dato a Paul Atreides (vedi MAHDI).

WALI: (da Wāli, santo, patrono, persona vicina) giovane Fremen.

YA HYA CHOUHADA: (plausibilmente da , vocativo, e da Shuhāda', martiri) Lunga vita ai combattenti, espressione Fremen.

YALI: (probabilmente dal turco Yalı, costruzione su lungomare) abitazione Fremen.

YA YA YAWM: (forse da , vocativo, e Yaūm, giorno) canto Fremen.

ZENSUNNI: (forse da Sunni, sunnita in inglese, e/o da Senussi, confraternita islamica libica) nomadi antenati dei Fremen, seguaci di una setta scismatica che nel 1381 del Calendario Imperiale si distaccò dagli insegnamenti di Maometh (il cosiddetto Maometto Terzo).

giovedì 2 maggio 2024

Ricorrenze nel testo coranico: avvicinare/allontanare

Questa rilevazione è da aggiungersi a quella sul codice 10 riportata nel mio manuale.
Nel Corano sono infatti 10 entrambe le ricorrenze di queste due radici esprimenti i significati opposti di avvicinare e allontanare: zā-lām-fā e 'ayn-zā-lām. Come sempre, per non incappare in fraintendimenti circa il significato di queste particolarità del testo coranico, invito a consultare i concetti riportati nel mio manuale e riassunti in particolare nel paragrafo 2.4 dove spiego la differenza fra "miracolosità" e scientificità del Corano. Il suddetto paragrafo è visionabile anche come singolo paper attraverso questo link: Metafisicità e scientificità del Corano

Link per la verifica:

mercoledì 1 maggio 2024

Ricorrenze nel testo coranico: la radice shīn-hā-rā

 La radice trilittera shīn-hā-rā (ش ه ر) è utilizzata nel Corano per generare il termine shahr (شهر), mese, che si riscontra in questa casistica: 12 volte come singolare, 2 volte come duale e 7 volte come plurale.

 Su quest'ultima forma sappiamo che il numero sette è utilizzato dalla simbologia coranica per indicare il concetto di infinito, e quindi la ripetizione indefinita, però è ancora più interessante notare che a sua volta questo plurale è espresso 6 volte come ashhur (أَشهر) e 1 sola volta come shuhūr (شهور). Il fatto che si ripeta 2 volte la forma duale shahrayn (شهرين), che è specifica per le coppie e che ovviamente non ha un corrispettivo nella lingua italiana, non necessita di particolare commento quanto alla corrispondenza, ed è piuttosto interessante raccogliere il suggerimento quanto alla duplicazione: aggiungendo il dato agli altri otteniamo la semplice operazione 2 x 6 x 1 = 12.

 Come detto sono 12 anche le ricorrenze della forma singolare del termine shahr (شهر), mese, e a questo proposito sappiamo che il Corano dà delle indicazioni molto precise.

Parti dei versetti 9:36 e 9:37 da un passo dal mio manuale in cui riporto alcuni dei dati utili alla composizione della formula coranica sulla relatività spazio-temporale > Corano, tecnologia e vita extraterrestre
  Oltre al parallelismo fra i 12 mesi singoli e i 12 ottenuti moltiplicando quelli multipli, con questi numeri si possono fare altre operazioni. Per esempio 12 : 6 : 2 : 1, ovvero 12 : 6 : 2 = 1. Sono significative perché sono significativi di per sé i numeri forniti dalle ricorrenze. Un risultato particolarmente interessante è un'ulteriore corrispondenza con il numero 144, trovato mettendo assieme vari dati forniti dal Corano fra cui proprio quello dei mesi (cfr. La Guida), che è il quadrato di 12 ovvero 12 x 6 x 2  x 1.
 Come sempre occorre ricordare che non si stanno ipotizzando "miracoli", né "coincidenze" dal sapore inconsapevolmente magico, quanto calcoli che, data la nutrita presenza, è altamente improbabile non siano stati pensati durante la redazione del Corano (cfr. Vademecum). Soprattutto, la cosa notevole è che questi computi si mostrano a volte, come in questo caso, incastrati fra loro, cosa che porta la necessaria capacità di calcolo ad un livello ancora più alto e difficilmente immaginabile per il VII secolo.

martedì 23 aprile 2024

Il testo più importante di tutti i tempi

 Quale migliore evenienza della Giornata mondiale del libro per insistere con la mia principale fissazione (che dimostrerò è oggettivamente giustificata) ricordando quello che è il testo più riprodotto, letto e venerato di tutti i tempi: il Corano.

 Già, non la Bibbia, come si legge da più parti e il più delle volte senza fonti, a sentimento. Certo, si tratta in ogni caso di una delle narrazioni più riprodotte e importanti di sempre, in astratto forse veramente la più influente, ma nei fatti non esiste una Bibbia quanto tante bibbie, con canoni diversi e in traduzioni di traduzioni da traduzioni, cosa che aumenta la variabilità anche all'interno degli stessi canoni. Si tratta in sostanza di testi diversi e di cui non esiste uno che faccia da riferimento universale. Di contro, del Corano esiste un solo canone in sette cosiddette letture che si riflettono in sette scritture (uguali fra loro al 99%), in forma e lingua originale o in traduzione diretta da essa.

 Volendo per forza fare un paragone concedendo ad una versione della Bibbia di entrare in competizione, lo potremmo fare fra questa e una lettura precisa del Corano. Alla prima si dovrebbe ancora concedere una certa variabilità, mentre nel caso della seconda staremmo parlando di un testo univoco, con una variabilità dello 0%. Così facendo risulterebbe che ad affrontarsi sarebbero il campione fra le bibbie, ovvero la protestante King James Version, e la lettura di gran lunga più diffusa del Corano, cioè la Ḥafs. In che proporzione è la più diffusa? Si stima che al muṣḥaf Ḥafs siano riconducibili il 95% delle riproduzioni e delle traduzioni del Corano¹, media che ritengo attendibile perché ne ho trovato sia di leggermente maggiori (fino al 98%) che inferiori (intorno al 90%). Seppure della KJV siano state prodotte nel tempo delle versioni diverse anche nel canone, andiamo a vedere che dati è possibile reperire per fare questa comparazione.

 Nella ricerca si può subito notare come molti siti riportino statistiche ormai vetuste e virtualmente inutilizzabili, sia per l'essere datate che per il riportare il dato della Bibbia come unitario, cosa che come detto è tecnicamente scorretta. Ad esempio Wikipedia² riporta una stima del Guinness World Record prodotta nel 1995 accorpando ogni edizione (cioè diverso canone) della Bibbia. E così molti altri che ripetono e propagano gli stessi vizi di forma (e di sostanza). Due dati utili che è possibile e necessario reperire sono invece questi: la stima delle copie della sola KJV e una stima più aggiornata sulle copie stampate del Corano.

 La prima è stata prodotta una decina d'anni fa dal sito specializzato LoveReading valutando edizioni e traduzioni dirette, ed è riportata nell'infografica allegata. È una delle pochissime condotte ricercando una stima specifica per la KJV, attestata a circa 2,5 miliardi di riproduzioni. In realtà ho trovato anche stime notevolmente più basse, intorno al miliardo di copie³, ma prendiamo per buona questa anche se fosse per abnorme eccesso. La stessa infografica riporta anche la stima di più di 3 miliardi di copie prodotte del Corano (qui indicato con un dato unico che noi raffineremo ulteriormente per ricavare il dato sul solo muṣḥaf Ḥafs). Questa stima è stata riportata nel 2023 anche dal sito Wordsrated⁴, che pur tendenziosamente pone come certa la cifra data dal Guinness World Record nel 1995, ribadita nel 2015 come se il tempo per il Corano si fosse fermato, e solo come ipotesi dà la cifra più aggiornata. Sebbene possa essere anche questa una sottostima, è al contrario quella meno irrealistica perché dal 1995 ad oggi sono state stampate milioni e milioni di copie del Corano. Ora troviamo qual è la cifra a cui possiamo attestare il muṣḥaf Ḥafs: il 95% di 3 miliardi, cioè la percentuale di copie del muṣḥaf Ḥafs o sue traduzioni, è 2 miliardi e 850 milioni. Ovvero circa 250 milioni di copie in più della stima per eccesso della KJV. Senza poi contare il fatto che mentre la KJV ha ormai perso autorevolezza rispetto ad altre versioni (notabilmente la cattolica Bibbia di Gerusalemme) e non accrescerà più di tanto i suoi numeri, il muṣḥaf Ḥafs, da sempre maggioritario, sta ormai facendo scomparire le altre letture come la Warsh, macinando numeri su numeri. Questo trend insomma non può che continuare, e il divario ad accrescersi.

 Come dimostrato, anche volendo essere permissivi con la Bibbia e restrittivi col Corano, anche prendendo delle statistiche che lavorano per eccesso nel caso della Bibbia e per difetto nel caso del Corano, quest'ultimo risulta, nel canone detto Ḥafs, il testo più riprodotto di tutti i tempi. È difficile da ammettere soprattutto per l'Occidente, la fu Cristianità che ora si pensa laica e tale ancora non è, ma qualcuno deve pur cominciare a dirlo⁵. Oltre a ciò, il Corano risulta il testo più letto dal maggior numero di persone contemporaneamente. Non essendo mai arrivato il genere umano a 8 miliardi di individui (di cui 1 su 4 musulmano con ulteriore trend in crescita) risulta anche il testo a cui si dà più credito di sempre. In poche parole: il testo più importante di tutti i tempi.
 Poi certo, per taluni può essere più importante il Siddharta di Herman Hesse, per altri il Libretto Rosso di Mao, per altri ancora l'ultimo manga pubblicato. Ma sulla vita di tutti influisce e influirà il testo che già ora e sempre più importa alle masse, in una diffusione tale da potersi riscontrare in ogni parte del globo: il Corano.


domenica 21 aprile 2024

Ricorrenze nel testo coranico: la radice mīm-ṭā-rā

  Nel Corano sono varie le ricorrenze numeriche che riguardano il numero 7 e suoi multipli. Una interessante che ho ora verificato, e che si aggiunge alle altre già segnalate sul mio manuale, è questa: dalla radice trilittera mīm-ṭā-rā si originano il sostantivo maṭar, pioggia, e il verbo indicativo um'ṭirat, piovere, ed entrambi si ripetono in tutto il testo coranico 7 volte.

 Si origina poi dalla stessa radice il participio attivo mum'ṭir, traducibile con l'aggettivo 'piovoso', che ricorre un'unica volta e che rimane quindi a suggello dell'altra e significativa proporzione fra sostantivo e verbo.

 Curiose coincidenze, se non si fossero già riscontrate decine e decine di "coincidenze", e non si fosse già ragionato sulla difficoltà di porle in essere con la potenza di calcolo del VII secolo, quando fu redatto il testo del Corano giunto fino a noi, e soprattutto tenendo conto del fatto che risultano incastri su incastri incrociati. L'unica ipotesi di spiegazione plausibile a cui si può giungere con approccio razionale è che non si tratti né di una sommatoria di "casi", tali per cui sarebbe incoerente non vedervi un disegno intelligente, né di un "miracolo", come sostengono generalmente i musulmani chiudendo così la questione, e neanche dell'operato di un qualche sconosciuto consesso di sapienti plurispecializzati con conoscenze per il tempo anacronistiche. Bensì di qualcos'altro, di natura certamente inaudita e difficile da digerire, ma su cui il Corano stesso dà delle indicazioni abbastanza esplicite. A volerle leggere, ovviamente.

venerdì 15 marzo 2024

Interpretazioni e pratiche alternative del digiuno di Ramaḍān

 Non molti sanno che non tutti i musulmani digiunano durante il mese lunare di Ramaḍān. O meglio, non tutti i musulmani intendono allo stesso modo il digiuno (nel Corano indicato coi gli infiniti sostantivati ṣiyām e ṣawm o col verbo ṣāma). E che, oltre a questo, non c'è un solo modo di praticarlo anche per coloro che si attengono alle dottrine maggioritarie.

 Fra chi si discosta dalla pratica comunemente nota (astenersi dal mangiare e dal bere durante il giorno) ci sono gli aderenti a branche minoritarie ma tradizionali dello sciismo, come l'alevismo, alcuni tipi di ismailismo, il bektashismo e l'alawismo, o a correnti interne al sunnismo, come certe declinazioni antinomiste del sufismo, per arrivare al moderno coranismo, dove le interpretazioni e le tradizioni sedimentatesi nei secoli hanno poco o nessun peso.

 Sostanzialmente le versioni alternative mettono l'accento sull'aspetto spirituale del digiuno, presente anche nella pratica maggioritaria che però tiene in pari conto quello fisico, e in cui le motivazioni si basano in genere su letture di alcuni passaggi del Corano diverse rispetto a quelle più comuni. La maggior parte dei musulmani fonda la propria pratica sugli stessi, associati alle raccolte di aḥādīth e alle tradizioni consolidate, e difficilmente converrebbe su possibilità altre rispetto a quella predominante. Vediamo invece perché, ferma restando la legittimità delle interpretazioni e della pratica maggioritarie, anche le interpretazioni e le pratiche alternative sono non solo legittime ma plausibili.

 Premessa: i sostantivi generalmente intesi/tradotti come 'digiuno' e il verbo inteso/tradotto come 'digiunare' vengono tutti dalla radice ṣ-w-m (in arabo ص-و-م‎), e possono intendersi/tradursi anche solo come 'astensione/astenersi'. Si preferirà questa resa (meno comune ma comunque letterale) per spiegare i concetti. 

 Il primo passaggio importante è quello che istituisce la pratica generale. 

"È nel mese di Ramaḍān che [per primo] abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli Uomini, prova di retta direzione e distinzione. Chi di voi lo testimoni si astenga".¹

 Quindi ci si astiene da qualcosa per testimoniare la Rivelazione. Qual è il nesso? Per i musulmani è generalmente scontato: si chiede di dare una testimonianza a Dio, al mondo e a se stessi, attraverso un processo di purificazione corporale e spirituale. Ammessa e non concessa questa funzione, c'è anche una logica precisa dietro l'associazione fra Rivelazione e astensione? Sì, c'è: viene chiesto di far spazio alla Rivelazione, più del normale, per testimoniarne l'importanza.

 Il passaggio chiave che spiega questo rapporto vede protagonisti - per taluni sorprendentemente - Maryam (Maria) e 'Īsā (Gesù), nel momento del concepimento miracoloso di quest’ultimo che è anche l'inizio della sua missione profetica. Qua diventa evidente come in questo contesto la radice ṣ-w-m, la cui derivazione specifica ṣawm viene stavolta intesa dagli esegeti col concetto di "voto di silenzio" (e qui resa come 'astensione'), possa significare esattamente l'astenersi da qualsiasi cosa non sia la Rivelazione.

"[Maria] lo concepì, e in quello stato si ritirò in un luogo lontano.

I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: «Povera me! Fossi morta prima di tutto ciò e fossi già del tutto dimenticata!».

Fu chiamata dal basso: «Non ti affliggere, perché il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi; scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi. Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno, di’: “Ho promesso un'astensione al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno”».

Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: «O Maria, hai commesso un abominio! O sorella di Aronne, tuo padre non era un empio né tua madre una libertina».

Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: «Come potremmo parlare con un infante nella culla?».

[Ma Gesù] disse: «In verità sono un servo di Dio. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta. Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l’orazione e la decima finché avrò vita, e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né agitato né ignavo. Pace su di me il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita».

Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano".²

 Maria dunque non parla, lo lascia fare a un Gesù bambino sovrannaturale che rappresenta la parola divina a lui assegnata, cioè la Rivelazione tutta. Si astiene quindi dal mettere del suo, digiuna da sé, e dal mondo, facendo spazio alla "parola di verità". Allo stesso modo, durante il mese di Ramaḍān viene chiesto al musulmano di rafforzare la sua attenzione e la sua adesione alla rivelazione coranica. Interessante fra l'altro notare che, a fronte delle nove volte che compare nel Corano il termine ṣiyām, questa è l'unica in cui viene impiegato il sinonimo ṣawm, con cui viene più comunemente e specificatamente indicato il digiuno di Ramaḍān.

 Possiamo adesso introdurre in questa sequenza il versetto in assoluto il più importante nel determinare la pratica del digiuno fisico, e l'unico che la giustifichi. Si vedrà, con questa resa estremamente letterale, come l'immagine impiegata dal Corano (il filo bianco e il filo nero) sia molto particolare, e infatti non manca chi, specialmente fra i coranisti, arriva a mettere in dubbio tout court che si stia parlando di luce e buio. Senza addentrarci nelle interpretazioni più ardite, andiamo a vagliare cosa si possa leggere di diverso da quelle più comuni.

"Vi è permesso, nelle notti dell'astensione, accostarvi alle vostre donne; esse sono per voi una veste, e voi siete una veste per loro. Dio sa come ingannavate voi stessi, così ha accettato il vostro pentimento e vi ha perdonati. Frequentatele, dunque, e cercate [pure] ciò che Dio vi ha concesso. E mangiate e bevete fin quando diventeranno distinti il filo bianco dal filo nero, all'alba; quindi astenetevi [di nuovo] fino a sera. Ma non frequentatele [neanche di notte] quando siete in ritiro nelle moschee. Ecco i limiti di Dio, non vi avvicinate! Così Dio spiega agli Uomini i Suoi segni, affinché siano timorati".³

 Notare che il passaggio sul mangiare e il bere è all'interno di un passo che sostanzialmente concede agli uomini in raccoglimento di fare delle pause e stare insieme alle proprie consorti. Sembra quasi un'intromissione, un'interferenza, perché il versetto inizia e finisce con questo tema. Ma, se aggiungessimo nella traduzione una piccola spiegazione, si potrebbe riscontrare una coerenza inaspettata: " E [durante lo stare insieme] mangiate e bevete [pure] fin quando diventeranno distinti il filo bianco dal filo nero, all'alba". In questo caso il focus sarebbe sullo stare (o il non stare) insieme, non sul mangiare e il bere, o il non farlo: si starebbe dicendo che il mese di Ramaān è sì dedicato esclusivamente alla Rivelazione, ma durante la notte è concessa l'intimità, e volendo un minimo di festività cioè di "profanità", nel momento del ricongiungimento famigliare. A patto però di non trovarsi in ritiro anche durante la notte. Poi il giorno dopo dovrebbe ricominciare la dedizione totale, che implica un certo isolamento come isolato era Maometto quando ricevette il primo messaggio nella caverna sul monte Ḥirā'.

 A questo proposito esiste un importante ḥadīth che, pur senza considerarlo normativo come il Corano, vale la pena riportare. Compreso nella raccolta più autorevole in assoluto, quella prodotta nel IX secolo dal persiano al-Bukhārī, racconta che la moglie di Maometto 'Ā'isha bint Abī Bakr avrebbe appreso dal Profeta in persona che la prima rivelazione avvenne in questo modo:

[Maometto] prese amore per la solitudine. Si isolava in una grotta sul monte Ḥirā', e vi si dedicava alla devozione, cioè all'adorazione, per molte notti, prima di tornare in famiglia. Perciò si riforniva di provviste, poi tornava da Khadīja e di nuovo si riforniva, finché giunse la Verità. Mentre stava nella grotta di Ḥirā' si presentò a lui l'angelo e gli disse: «Proclama!». Egli raccontò: "Gli dissi: «Non so proclamare!». Allora mi afferrò e mi strinse finché ripresi le forze, poi mi lasciò e disse: «Proclama!». Risposi: «Non so proclamare!». Mi afferrò e mi strinse per la seconda volta, finché ripresi le forze, poi mi lasciò e disse: «Proclama, nel nome del tuo Signore, che ha creato. Ha creato l'Uomo da un grumo di sangue! Proclama! Che il tuo Signore è il più generoso»". Dopo questo, l'Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - fuggì verso casa col cuore tremante, si presentò a Khadīja bint Khuwaylid, e disse: «Copritemi, copritemi». Lo avvolsero in un mantello finché lo spavento non lo lasciò; parlò allora a Khadīja informandola dell'accaduto.

 Questo racconto, se preso per veritiero, dovrebbe suggerire proprio che, per testimoniare l'inizio della Rivelazione come da ingiunzione coranica, e a imitazione dell'agire di Maometto come sostiene di fare chiunque segua la Sunna, ci si dovrebbe isolare periodicamente fino al successivo ricongiungimento. E così via per tutto il mese sacro. Ma si parla anche di provviste utili a trascorrere il periodo di isolamento, che, sempre stando all'ingiunzione coranica, sarebbe durante il giorno. Quindi, fra le astensioni, rimarrebbe solo quella dalla socialità. Va detto che la Sunna ha, come detto, una valenza relativa, teoricamente secondaria anche secondo la tradizione islamica, e che, essendo fondata su una letteratura sterminata, può generare direttive anche molto contrastanti fra loro, dunque si è riportato questo ḥadīth più che altro come esempio della possibilità di desumere pratiche alternative anche da essa, a seconda dei racconti presi in esame.

 Tornando al Corano, un altro versetto significativo stabilisce la licenza per chi è momentaneamente impossibilitato, come i malati o i viandanti, e la possibilità di una pratica espiatoria (fadyah) per chi è impossibilitato a tempo indeterminato. 

"Chi di voi fosse malato oppure in viaggio, [lo faccia] in altri giorni. E per coloro che [difficilmente] lo sopporterebbero c'è un riscatto: sfamare un indigente. E chi farà ancora di più, buon per lui. Però sarebbe meglio per voi che digiunaste, se [lo] capite".

 Ciò determina che anche chi non nega la pratica maggioritaria possa, per attenersi alle indicazioni coraniche secondo l'interpretazione tradizionale, praticare il digiuno spirituale sulla propria persona e quello fisico sui propri beni e il proprio tempo, trattandosi evidentemente di atti di beneficenza. Ma determina anche il fatto che, nelle interpretazioni alternative, l'astensione spirituale possa essere ritenuta superiore a qualunque pratica fisica.

 Va ribadito ulteriormente che l'aspetto spirituale del digiuno è ben presente anche nella teoria dell'interpretazione maggioritaria, e che quello fisico (l'astrarsi carnalmente dal mondo contingente, la dunyā, che spesso il Corano subordina alla ākhirah, la vita eterna) non dovrebbe comunque mancare, per coerenza, anche in quelle alternative. Ma come dimostrato è perfettamente legittimo mettere l'accento sulla lettura e la meditazione più assidue del Corano, l'austerità e il rifuggire qualunque frivolezza, il correggere abitudini sconvenienti, il dedicare tutto se stessi a Dio, piuttosto che su una pratica di mortificazione fisica quando non una semplice inversione del giorno con la notte. Nella quale, non di rado, la seconda finisce per divenire occasione per eccessi, di gola e non solo, che sono quanto di più lontano ci possa essere da una testimonianza di fede nel messaggio coranico. Una delle sue direttive fondamentali è infatti la wasaṭ (moderazione, morigeratezza, equilibrio), chiamata in causa proprio come applicazione e dimostrazione pratica del suo contenuto:

"Abbiamo fatto di voi una comunità equilibrata, affinché foste una testimonianza davanti all'Umanità così come il Profeta lo è per voi".

 Ciò che deve infine emergere da questa breve disamina, brevissima tenendo conto dell'importanza che il tema riveste nell'islam odierno dove è considerato uno dei pilastri della fede, è che, se è vero che praticare il ṣiyām/ṣawm è un'ingiunzione coranica, durante il mese di Ramaḍān e non solo, la messa in pratica di questo comandamento è determinata fondamentalmente dalla sua interpretazione, dall'ulteriore apporto o dall'esclusione della Sunna, e dall'attenersi o meno alle tradizioni affermatesi nei secoli. È riscontrabile in ciò un parallelismo con quel che è successo nel giudaismo, il che ci porta a concludere con una citazione biblica passando ancora per il Corano. Il versetto precedente a quello che istituisce la pratica dichiara:

"O voi che credete, vi è stata prescritta l'astensione così come era stata prescritta a coloro che [sono venuti] prima di voi, affinché foste timorati".

 Il riferimento sembra essere alle precedenti religioni abramitiche, dove in effetti il digiuno era già praticato. Ora, andando a sondare la Bibbia, il passo più vicino ad un'ingiunzione divina pertinente il digiuno è il seguente:

Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilierete, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese, sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi. Poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore.

 Come evidente, non è riscontrabile un vero e proprio comandamento esplicito a digiunare, ed è stata piuttosto la tradizione ebraica a interpretare in questo senso il passo. Ciò al netto del fatto che l'attendibilità dei resoconti biblici è parificabile a quella degli aḥādīth, non avendo noi a disposizione un originale su cui esaminare minuziosamente (come è invece possibile fare col Corano di cui abbiamo l'originale) ogni singola parola. Nessuno può dire con certezza cosa si intendesse, come fosse l'originale, di quel 'umiliarsi', 'astenersi', 'purificarsi'. Quel che è certo è che dall'interpretazione di codici rapportabili a quelli in nostro possesso, o già a partire da altri andati perduti, si è poi sviluppata la festività dello Yom Kippur, alta solennità ebraica chiamata dai sefarditi "Digiuno Bianco", e la pratica di digiunare anche in altre evenienze catalogate e descritte nel trattato Ta'anit (fissato non prima del II secolo d.C, verosimilmente nel V-VI come i canoni talmudici). Essendo queste pratiche in uso prima della rivelazione coranica, anche presso i cristiani, è quindi possibile fare due ipotesi: l'interpretazione dell'astensione come digiuno potrebbe essere stata influenzata dalle usanze delle "Genti del Libro" (così sono definiti nell'islam, con ovvia allusione alla Bibbia, i precedenti monoteismi rivelati) oppure l'interpretazione dell'astensione come digiuno potrebbe aver seguito lo stesso processo, in parallelo ma senza influenza diretta.

 Stabilire quale delle ipotesi sia più corretta esula però dal fine di questa analisi, il cui scopo principale rimane quello di illustrare il tema indicato nel titolo. Con questo colgo l'occasione per chiudere augurando un fruttuoso periodo di astensione a tutti quelli che si accingono a praticarla. In qualunque modo decidano di farlo. Durante Ramaḍān e oltre.

¹ Corano 2:185.

² Corano 19:22-34.

³ Corano 2:187.

⁴ Ṣaḥīḥ al-Bukhārī, Il principio della Rivelazione, sulla base della traduzione di V. Vacca in Detti e fatti del profeta dell'Islām, UTET, 2009.

⁵  Corano 2:184.

⁶ Corano 2:143.

⁷ Corano 2:183.

⁸ Bibbia CEI 1974, Lv 16:29-30.