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mercoledì 7 maggio 2025

Lo Spirito Santo nel Corano

 Il concetto di Spirito Santo (Rūḥ al-Qudus, in arabo روح القدس) è menzionato nel Corano quattro volte (2:87; 2:253; 5:110; 16:102). Da solo o in altre combinazioni, lo Spirito (Rūḥ) è citato in tutto ventuno volte, ma in questo articolo mi concentro primariamente sulle quattro in cui è appellato esplicitamente Santo. Di queste, solo una, il versetto 16:102, si riferisce alla rivelazione ricevuta da Maometto, cioè al Corano stesso. Il versetto è il seguente: 

Lo ha fatto scendere lo Spirito Santo, [proveniente] dal tuo Signore. In verità, per rinfrancare coloro che credono, e come guida e buona novella per coloro che si riappacificano.

 Le altre tre occorrenze sono in relazione a Gesù. Lo Spirito Santo qui è definito invariabilmente come ciò che conferma la sua missione profetica, e non è quindi identificabile direttamente con lui, né direttamente con Dio, ma - analogamente a quanto avviene con il Corano stesso - come un suo atto. Ciò serve anche a riportare ordine nella concezione di Dio, turbata, secondo il Corano, dalle speculazioni trinitarie.

 Nella Tradizione islamica è però prevalsa un'interpretazione materialista di tutto questo, e Rūḥ al-Qudus è stato identificato come l'interlocutore unico di Maometto, l'Arcangelo Gabriele*. In realtà, nel Corano manca questa associazione definitiva, o comunque esplicita. Tralasciando le congetture in merito plasmate dalla Sunna, su base esclusivamente coranica è legittimo ritenere che l'identificazione dello Spirito Santo con Gabriele sia, oltre che un'interpretazione affatto letterale, una riduzione, un'ipersemplificazione, e che Rūḥ al-Qudus abbia una più ampia gamma di significati, di cui quello concretizzatosi nell'operato degli angeli è solo uno dei tanti.

 Per capire quali e quanti altri possano essere, possiamo usare, invece che le raccolte aḥādīth che ci porterebbero sulla stessa strada percorsa dalla Tradizione, il metodo del tafsīr al-Qur'ān bi_l-Qur'ān, cioè l'interpretazione di elementi coranici attraverso altri elementi dello stesso Corano. Dobbiamo quindi andare a vedere che valenze ha altrove il concetto di Rūḥ. Fra i passi che lo riportano, ve ne sono due signicativi identici, 15:28-29 e 38:72, dove dell'Uomo si dice, nel simbolo della creazione di Adamo, che Dio gli ha soffiato dentro il proprio Spirito. Riporto il primo.

Il tuo Signore disse agli angeli: «Creerò l'Uomo con argilla secca, impastata di fango. Quando poi lo avrò plasmato, e avrò soffiato in lui del Mio spirito, prosternatevi al suo cospetto».

 In questo caso, Rūḥ rappresenta ciò che attiva l'essere umano, lo rende ciò che è, ed è identificabile come ciò che più lo distingue dalle altre forme di vita a noi note: il pensiero riflessivo, la coscienza di sé, per qualcuno l'anima. Qualunque cosa sia, nella logica coranica espressa in innumerevoli passaggi che non serve elencare, deve servire all'Uomo, oltre che per vivere, anche e soprattutto per riconoscere l'esistenza e la sovranità di Dio, ovvero per tornare a lui. Questo è descritto come l'estremo e unico vero successo dell'esistenza umana.

 Questa facoltà non è però illimitata, così come l'Uomo non è - nella teologia coranica - al centro del cosmo al posto o insieme a Dio, e a ricordarcelo c'è il passo racchiuso nei versetti 17:85-87. Qui lo Spirito non è definito Santo, ma è chiaro che i concetti sono, seppure non identici, collegati, anche perché si tira in ballo esplicitamente la Rivelazione.

[O Maometto] ti chiederanno a proposito dello Spirito. Rispondi: «Lo Spirito proviene dall'ordine del mio Signore e non vi è stato concesso se non poco sapere [a riguardo]. Se volessimo, potremmo ritirare ciò che ti abbiamo rivelato e non potresti trovare alcun [valido] oppositore contro di noi. Se non [fosse che vi spetta] una grazia da parte del tuo Signore, poiché, in verità, la Sua su di te è grande».

 Nel Corano, lo Spirito Santo è quindi correlato da una parte al processo con cui Dio si rivela, ovvero comunica con le sue creature, e dall'altra a concetti astratti come la coscienza, la ragione, la parte più nobile dell'essere umano ovvero l'anima. Parte che, come detto, per il Corano trova pieno compimento solo nel rivolgersi verso Dio. Dunque, le direzioni sono due, speculari: da Dio verso le creature e da queste, di ritorno, verso Dio. Le sfumature possibili sono anche altre, ma queste sono le principali.

 Tutto ciò non è estraneo alle altre religioni abramitiche, e a quella cristiana in particolare, cosa che il Corano non nasconde ma anzi esalta associando per ben tre volte Rūḥ al-Qudus a Gesù. È stata piuttosto la Tradizione, con una selezione nella vasta gamma di significati, ad averne preso le distanze con la preponderante sovrapposizione dello Spirito Santo con la figura di Gabriele. Questa non è da escludere, e anzi, nella veste di rappresentazione di tutto il processo comunicativo messo in opera dagli angeli, è sicuramente presente nel Corano. Ma si tratta solo di un fenomeno di quella che è, in definitiva, una dinamica più ampia e significativa, perché universale: la relazione diretta fra il Creatore e le sue creature, che è già definita santa nel momento in cui procede dal primo verso le seconde, e che - per logica intrinseca - può portare quest'ultime a santificarsi nel momento in cui, rispondendo alla chiamata, stabiliscono la connessione. 

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* Ciò è vero soprattutto per il sunnismo, mentre nello sciismo la definizione è più sfumata, e il consenso su come intendere il concetto è minore. Da segnalare poi che nel sunnismo, come spesso accade, la dimensione esoterica del sufismo permette interpretazioni alternative a quella ritenuta ortodossa, o comunque divenuta maggioritaria.

martedì 8 aprile 2025

دراسات شرقية والاستشراق _ Orientalistica e Orientalismo

 'Orientalistica' è un termine generico usato in Occidente per definire l’insieme di discipline rivolte allo studio delle civiltà del Medio Oriente, dell’Asia e in senso lato anche dell’Africa. In sintesi, lo studio di tutto ciò che fino alla scoperta delle Americhe era l’Altrove. Sempre meno utilizzato in questo senso generalista, è però un termine utile per inquadrare l’ottica con cui la civiltà occidentale, e la Cristianità che per lungo tempo con essa si è identificata, si è rapportata dal Medioevo fino all’Età Moderna con le culture altre. E il fatto che per lungo tempo l’Oriente conosciuto sia coinciso in Europa con il mondo arabo-islamico, rendendolo l’alterità per eccellenza, è la dimostrazione di come esso abbia giocato un ruolo chiave, tanto di cesura con l’Oriente Estremo quanto di ponte fra le varie parti del Vecchio Mondo.


 Infatti l’Islam, pur essendo inevitabilmente caratterizzato dalle sue origini nella Penisola Arabica, rigetta in via teorica di coincidere con un’istanza nazionalistica e si presenta anzi come sistema universale ed inclusivo già a partire dal Corano ( “A Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente, ovunque vi volgiate lì c’è il Suo volto”1) e da tendenze nella Tradizione (“Cercate la conoscenza fino in Cina” recita un famoso detto attribuito al profeta Maometto). Come detto, questa è teoria, perché già durante il califfato degli Omayyadi si manifestò da parte degli arabi un certo suprematismo, presto ridimensionato dalla dinastia che prese il comando della Ummah, quegli Abbasidi così inclini alla promozione della cultura persiana. Il suprematismo arabista si manifestò periodicamente, così come ne vennero fuori di altri (notabilmente quello persiano nell’area iranica e quello turco nell’Impero Ottomano), sempre però mitigati dalla vocazione universalista dell’Islam costituzionale, quello coranico. Nonostante le resistenze, ciò gli ha permesso di radunare, dalle steppe dell’Asia centrale alle coste dell’Africa meridionale, dalle sabbie del Sahel fino alle giungle della Nuova Guinea, le più disparate componenti etniche, e con esse le conoscenze delle quali queste erano già in possesso. Basti pensare che attraverso il mondo islamico sono giunti fino a noi dall’India il sistema decimale e i numeri ancora oggi definiti "arabi" (e con essi l’algebra, le equazioni, gli algoritmi, eccetera), dalla Cina la carta, la polvere da sparo e la bussola, dalla Persia le più avanzate conoscenze astrologiche, chimiche e mediche e persino, da quello che fu il mondo ellenistico, le versioni di numerosissimi trattati di filosofia greca che in Europa erano scomparsi dalla circolazione per secoli. Forse proprio per questo il mondo islamico ha finito per diventare nell’immaginario occidentale una sorta di contenitore per ogni esotismo. Non a caso nelle operazioni di controcultura, tanto a partire dal mondo islamico quanto internamente a quello occidentale, si sta sostituendo al concetto classico di 'orientalistica' la semantica connessa al termine 'orientalismo', che ha una connotazione negativa perché evoca la sfumatura eurocentrica, paternalistica e predatoria con cui l’Occidente ha spesso rappresentato l’Oriente2.


 Non si può tuttavia negare che, pur inevitabilmente condizionati da un’ottica inizialmente definibile come proto-orientalista, gli studi specifici hanno portato gradualmente ad un approccio meno grossolano nei confronti dell’Islam. La prima traduzione nota del Corano in lingue europee fu commissionata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile ad un apposito gruppo di monaci, fra i quali vi era un ebreo convertito al Cristianesimo che conosceva l’arabo. Il lavoro, in latino, fu completato nel XII secolo e, nonostante fosse parziale e con scopo unicamente apologetico, ebbe tale fortuna da costituire la base per la prima versione stampata del Corano, ad opera di Bibliander, pubblicata a Basilea nel 1543. In seguito giunse la più accurata traduzione, sempre in latino, ad opera del chierico Ludovico Marracci, che dette alle stampe il suo lavoro a Padova nel 1698, dopo quarant’anni di studio approfondito del Corano e di molte altre fonti arabe. Ai giorni nostri si è particolarmente distinto per lo studio dell’Islam il teologo ed orientalista francese Louis Massignon, i cui contributi alla riflessione cattolica sono stati tra le influenze che hanno portato ad approfondire quello che originariamente doveva essere il documento Decretum de Judaeis nella più estesa dichiarazione conciliare Nostra aetate, il cui terzo punto sancisce: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta [...] Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione” 3. Le fa eco il più recente Catechismo della Chiesa Cattolica, sintesi ufficiale della sua dottrina, che arriva ad affermare: “Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale”4.


 Certamente non sono neanche mancati, tra Oriente islamico e Occidente europeo, gli elementi di divisione, ma la lista di quelli che ne mettono in luce la vicinanza è, seppure meno appariscente, più lunga. E come non annoverarvi, accogliendo una ricostruzione che sembra sempre più verosimile, gli input che oggi ci arrivano da un’opera come La Divina Commedia? Detto brutalmente - anche se fatti non fummo ad esprimerci come bruti - l’opera fondativa della lingua italiana risulta costruita con la stessa cornice narrativa con cui, in generi letterari chiamati Isrā’ e Mi’rāj, è stato descritto il miracoloso trasporto in cielo di Maometto. Ciò è stato rilevato, o meglio riportato alla luce, da vari autori5, primo fra tutti il sacerdote spagnolo Miguel Asín Palacios, agli inizi del secolo scorso.

 La storia è ormai nota: per volere di Alfonso X il Savio, sovrano particolarmente arguto e interessato a carpire le conoscenze dei precedenti dominatori della Penisola Iberica, alcuni di questi racconti, che narrano più o meno le stesse vicende, furono tradotti dall’arabo in castigliano, latino e provenzale, e cominciarono così a circolare, con titoli come Liber Scalae Machometi (il "Libro della Scala"), in ristretti ambienti intellettuali dell’allora Cristianità. La cosa non sarebbe di particolare rilievo se non fosse che tutto ciò avvenne qualche decina d’anni prima che Dante Alighieri si apprestasse a vergare la sua Commedia, e che le analogie fra le due opere si sprecano.


 Innumerevoli autori si sono adoperati per negare questa possibilità, altri ancora vorrebbero sfruttarla per fare proselitismo, quanto alle scuole generalmente non se ne parla o lo si accenna di sfuggita. Quel che è certo è che, per Dante, rivelare una simile influenza sarebbe stato un grosso problema. Non dovrebbe sorprendere né scandalizzare, anche accettando questa ricostruzione, la rappresentazione di Maometto e del quarto califfo ’Alī nel modo in cui tutti i suoi conterranei si sarebbero aspettati: con ben poca accondiscendenza. Ma rileggendo attentamente le quartine dantesche c’è un dettaglio su cui non ci si sofferma mai abbastanza: la collocazione è fra gli scismatici. Non fra i pagani, né fra i bestemmiatori, né tra i falsari o gli eretici. La loro colpa sarebbe quindi quella di aver fatto due di una sola religione. Se Dante intendesse instillare nei suoi lettori il pensiero della comune natura fra Cristianesimo e Islam, o se si riferisse allo scisma interno all’Islam fra sunniti e sciiti, a sua volta interno al Cristianesimo, o se volesse intendere entrambe le cose e altro ancora, non è semplice dirlo. Così come rimane un enigma il posizionamento di pensatori islamici come Averroè ed Avicenna nel limbo, insieme ai grandi pensatori pagani che hanno preceduto la Cristianità e informato il nascente Umanesimo. Il chiamare in causa la figura di ’Alī, difficilmente giustificabile se non in relazione alla divisione fra sunniti e sciiti, tradisce conoscenze che al tempo erano riservate agli specialisti, e non si accorderebbe con l’eventuale ignoranza della natura prettamente islamica dei suddetti filosofi, per giunta quasi contemporanei di Dante. Detto questo - e tacendo di molto altro che ci sarebbe da dire - niente si dovrebbe togliere alla magnificenza della Divina Commedia, che semmai mostra un’ulteriore dimensione, definibile quasi come orientalista ante litteram. Proprio per celarla agli occhi di chi non avrebbe potuto capire, il cauto poeta avrebbe nascosto le figure di Maometto e del quarto califfo ’Alī sotto ’l velame de li versi strani. Come Dante, ha fatto, e continuerà a fare, chi si incarica di traslare nei canoni della propria cultura ciò che di più sottile è stato codificato in altre.


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1 Corano 2:115.

2 Ciò è dovuto in gran parte al successo delle tesi esposte dall’intellettuale arabo-statunitense Edward Said, nell’omonimo saggio pubblicato per la prima volta nel 1978.

3 Nostra aetate, 3, dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 1965.

4 Catechismo della Chiesa Cattolica, 841, Libreria Editrice Vaticana, 2017.

5 A. Celli, Dante e l’Oriente. Le fonti islamiche nella storiografia novecentesca, Carocci, 2013.


Estratto da L’alfabeto dell’Islam. Edizione riveduta e ampliata © Alessio Pinna 2025 - Tutti i diritti riservati / All rights reserved. Per contatti e autorizzazioni: studicomparativi@gmail.com


venerdì 24 gennaio 2025

La particolarità e il successo dello ḥanafismo

Fra le quattro scuole giuridiche sunnite (madhāhib), quella ḥanafita è considerabile come la più flessibile e dinamica, perché ha un grande respiro ermeneutico e favorisce particolarmente l'utilizzo dello istiḥsan, ovvero dell'opinione personale nei casi in cui non sia possibile prendere decisioni utilizzando letteralmente i testi sacri né attraverso i tradizionali metodi dell'analogia (qiyās) e del consenso (ijmā'). Poiché l'islam è olistico, e la scuola giuridica di riferimento si traduce anche in una certa impostazione nel vivere la religione, non è un caso che lo ḥanafismo sia largamente diffuso in Paesi non a maggioranza islamica, dove i musulmani devono adattarsi alle diverse circostanze che si trovano ad affrontare. Ma anche in Paesi a maggioranza islamica che, come la Turchia e l'Albania, fanno da ponte tra fideismo orientale e razionalismo occidentale. O ancora in un Paese come il Kazakistan, che conta la maggiore percentuale di musulmani senza denominazione (cioè che non si identificano in nessuna branca particolare) e di coranisti (ovvero di chi si attiene al Corano ma non si sente vincolato dalla Tradizione). Ma non è neanche un caso che, all'opposto, sia la scuola giuridica adottata da rigoristi del Subcontinente Indiano come i Deobandi e dai Talebani, che ai primi si ispirano. L'elemento comune fra tutte queste realtà, il motivo stesso dell'esistenza di così diverse declinazioni, è proprio la flessibilità e la dinamicità di cui si è detto, connaturate all'impostazione metodologica ḥanafita.

A questa dimostrazione della sua specificità, calata nel panorama odierno, se ne può aggiungere una strutturale a partire dalla Tradizione: rispetto agli altri "padri" della giurisprudenza islamica, l'iracheno Abu Hanifa, fondatore della scuola ḥanafita, fa storia a sé. Risulta infatti che tutti gli altri, da Malik ad Ibn Hanbal, criticarono aspramente il suo approccio, tanto da considerarlo in alcuni casi come eretico. Fra le accuse che gli furono mosse ci fu anche quella (forse tendenziosa) di aver ispirato idee sovversive, quando si ritrovò incarcerato dal califfo abbaside al-Mansur per il suo rifiuto di divenire giudice di Stato, al suo compagno di cella Anan ben David, ebreo. Costui fu a sua volta considerato come un eretico dalla maggior parte dei suoi correligionari, perché rifiutò l'autorità del Talmud, che è in pratica il corrispettivo ebraico della Sunna. E quanto propriamente agli aḥādīth, che sono l'elemento costituente della Sunna ovvero della Tradizione che la giurisprudenza incarna, si ritiene che la seguente sia la catena fondamentale di trasmissione, in cui sono presenti e collegati tutti gli altri protagonisti del tradizionismo islamico ma non il fondatore dello ḥanafismo, di cui si dovrà notare la significativa assenza.

1. Muslim e al-Bukhari: Muslim ibn al-Hajjaj (autore del Ṣaḥīḥ Muslim, ritenuta la seconda più importante collezione di aḥādīth) non era uno studente diretto di Muhammad al-Bukhari (autore del Ṣaḥīḥ al-Bukhārī, ritenuta la più importante collezione in assoluto), ma fu profondamente influenzato dal suo metodo nella raccolta delle testimonianze. Come lui fecero anche gli altri collezionatori, che da allora in poi seguirono tutti la strada tracciata da al-Bukhari.

2. al-Bukhari e Ibn Hanbal: al-Bukhari non era un discepolo diretto di Ahmad Ibn Hanbal, fondatore della scuola hanbalita, ma si ispirò alle sue conoscenze e fu influenzato dal suo metodo. al-Bukhari incontrò Ibn Hanbal durante i suoi viaggi di studio e discusse con lui di questioni relative agli aḥādīth.

3. Ibn Hanbal e al-Shafi'i: Ibn Hanbal fu uno dei più illustri studenti di al-Shafi'i, fondatore della scuola shafi'ita, e da lui apprese il metodo e i principi dell'Uṣūl al-Fiqh, fondamento della giurisprudenza islamica.

4. al-Shafi'i e Malik: al-Shafi'i studiò direttamente con Malik Ibn Anas, fondatore della scuola malikita. Fu profondamente influenzato dal metodo di Malik nella giurisprudenza e nella trasmissione degli aḥādīth.

5. Malik e Nafi', il liberto di Ibn Umar: Malik Ibn Anas apprese molti aḥādīth da Nafi', il liberto di Abdullah ibn Umar, uno dei trasmettitori ritenuti più affidabili nella cosiddetta "Catena d'Oro" (Isnād adh-Dhahabī).

6. Nafi' e Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj: Nafi' apprese la conoscenza e gli aḥādīth da Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj, un noto sapiente e trasmettitore ritenuto molto affidabile.

7. Al-A'raj e Abu Hurayrah: Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj studiò e trasmise molti aḥādīth dal celebre compagno del Profeta Abu Hurayrah.

8. Abu Hurayrah e Maometto: Abu Hurayrah era uno dei compagni che visse ai tempi del Profeta, e fu quello che trasmise il maggior numero di aḥādīth, ovvero quello a cui il maggior numero di aḥādīth è attribuito.

Maggior diffusione per Paese delle principali scuole giuridiche islamiche, con in verde quella ḥanafita. Anche nelle Americhe, non riportate, risulta come quella più presente.

martedì 10 dicembre 2024

La dottrina islamica tradizionale riassunta in un ḥadīth

 Per la sintesi della dottrina islamica che fornisce, il cosiddetto Ḥadīth di Jibrīl (ovvero dell’arcangelo Gabriele, considerato dalla Tradizione come l’unico informatore, in varie forme, di Maometto) è uno dei più importanti racconti extracoranici sul Profeta e la comunità dei primi musulmani. Documentato in versioni simili nelle due più autorevoli collezioni sunnite, ovvero quella di al-Bukhārī e quella di Muslim, riporta che ’Umar ibn al-Khaṭṭāb, secondo successore di Maometto alla guida della Ummah, avrebbe narrato quanto segue:

“Un giorno, mentre eravamo seduti accanto al messaggero di Dio ecco apparirci un uomo dagli abiti candidi e dai capelli di un nero intenso; su di lui non vi era alcun segno dell’aver viaggiato, eppure nessuno di noi lo conosceva. Si sedette di fronte al Profeta, mise le ginocchia contro le sue e, appoggiando le palme delle mani sulle sue cosce, gli disse: «Maometto, dimmi cos’è l’Islam». Il messaggero di Dio, pace su di lui, rispose: «É che tu testimoni che non c’è altra divinità oltre a Dio e che Maometto è il messaggero di Dio; che tu compia la preghiera, versi il tuo tributo, digiuni nel mese di Ramadan e faccia il pellegrinaggio alla Ka’ba, se ne hai la possibilità»1. «Dici bene» disse l’uomo. Ci sorprese che fosse lui a interrogare e confermare il Profeta. Gli chiese allora: «Dimmi cos’è la fede». Il Profeta rispose: «É che tu creda in Dio, nei suoi angeli, nei suoi Libri, nei suoi messaggeri e nel Giorno Ultimo; e che tu creda nel decreto divino, sia nel bene che nel male»2. «Dici bene», replicò l’uomo che aveva parlato, aggiungendo: «Dimmi qual è la perfezione nella fede». Il Profeta rispose: «É che tu adori Dio come se lo vedessi; perché se anche tu non lo vedi, certamente Egli vede te»3. L’uomo disse: «Dimmi cos’è l’Ora [Ultima]». Maometto rispose: «L’interrogato non ne sa più di chi lo interroga». E l’uomo riprese: «Parlami allora dei segni premonitori». Maometto rispose: «Quando la serva genererà la sua padrona, e quando vedrai i pastori, miseri, scalzi e nudi, competere nelle costruzioni più elevate». Dopodiché l’uomo sparì e io rimasi assorto. Allora il Profeta, pace su di lui, mi chiese: «Omar, sai tu chi mi ha interrogato?» Io risposi: «Dio e il suo messaggero ne sanno di più». «Era Gabriele – disse – che è venuto per insegnare la vostra religione»”.4

1 Questi cinque articoli sono considerati dai sunniti i pilastri della fede islamica. A loro volta, sono la messa in pratica di una sorta di programma che, insieme al credere nel destino, è chiamato ’Aqīdahconsiderabile come un Credo sunnitaGli sciiti li considerano ugualmente fondanti, ma li accorpano ad altri, quali l’imamato come da loro inteso.

2 Questo sunto della fede islamica è chiamato Imān, che così enumerato rappresenta la parte teorica della ’Aqīdah.

3 Il termine arabo per questa perfezione, ovvero applicazione e riprova del successo nella messa in pratica della ’Aqīdah, è Iḥsāne può esplicarsi in diversi modi. Generalmente è inteso come la parte più spirituale dell’Islam.

4 Dal Ṣaḥīḥ Muslim, Libro della Fede, sulla base della trad. di S. Lei in Sahīh Muslim. Vol. 1, Tawasul Europe, 2021.

mercoledì 16 ottobre 2024

La creazione dell'Uomo nel Corano

 Numerosi passaggi del Corano si occupano della creazione dell'Essere Umano. Le diverse modalità presenti possono essere ricondotte sostanzialmente a due categorie: quella simbolica e quella concreta. Quella simbolica, ovvero antropogonica, riporta il tema della creazione di Adamo, il primo uomo, a partire da un impasto di terra/argilla/polvere (arḍ/ṭīn/turāb) e acqua ('). Poiché il versetto 42:29 identifica l'acqua come base di partenza per tutte le forme di vita organiche del cosmo, l'impasto con la terra da cui origina Adamo indica semplicemente, secondo la logica di questa simbologia, la natura organica e terrestre dell'Uomo.

 Qua ci soffermeremo sul processo concreto di embriologia come descritto in diversi passaggi, prendendo in esame quelli più rappresentativi. Ve ne sono infatti altri che ripetono più o meno gli stessi concetti, e che si limitano a rafforzarne i contenuti. Si premette che, fino a prova contraria, il plurale presente in alcuni passi è qui da intendersi come maiestatico (indicante quindi il soggetto singolare presente negli altri passi, cioè Dio), e si fa notare come i primi due e l'ultimo partano da un accenno della creazione simbolica per poi dettagliare quella effettiva. 

[Dio è] colui che ha perfezionato ogni cosa che ha creato. E ha iniziato la creazione dell'Uomo dall'argilla, poi ha tratto la sua progenie dall'essenza di un liquido poco significante.¹

Sappiate che vi creammo da polvere, poi da una goccia e poi da un'aderenza. E quindi da un ammasso, [in parte] formato e [in parte ancora] no. Così vi spieghiamo. E poniamo nell'utero ciò che vogliamo fino a un termine prestabilito.²

Creammo l'Uomo, per metterlo alla prova, da una goccia [di sostanze] mescolate.³

Non vi creammo forse da un fluido di poco valore, che ponemmo in un luogo sicuro per un certo tempo?⁴

Consideri dunque l'Uomo come fu creato: da un liquido emesso [dal padre], che [poi] esce di tra i lombi e le costole [della madre].⁵

[Dio] vi crea nel ventre delle vostre madri, fase dopo fase, in tre oscurità.⁶

In verità creammo l'Uomo da essenza di argilla. Poi ne facemmo una goccia [di liquido seminale posta] in luogo sicuro. Poi facemmo della goccia un'aderenza, e dell'aderenza un ammasso. Dall'ammasso creammo le ossa e le rivestimmo di carne. E quindi ne facemmo una nuova creatura. Sia benedetto Iddio, il Migliore dei creatori.⁷

 Su tutto questo si potrebbero subito avanzare le seguenti osservazioni:

- le nozioni presentate sono estremamente sintetiche e molto approssimative, dunque bisogna fare uno sforzo interpretativo per trovare delle corrispondenze più precise; questa è però la tipica procedura da seguire con i modelli astratti, metafisici, del Corano, che per la loro forma permettono di essere trasformati in modelli scientifici;

- volendo trovare delle corrispondenze precise, mancherebbero degli stadi nello sviluppo dell'embrione e del feto; ma è pacifico che non fosse scopo del Corano, nel trattare la materia, presentare ogni singolo passaggio del processo, come se si trattasse di un testo di biologia, quanto solo alcuni rappresentativi;

- andando nello specifico c'è un punto che parrebbe oggettivamente scorretto, ovvero si potrebbe opinare che la carne, i muscoli, non si formano dopo le ossa ma contemporaneamente ad esse; tuttavia la cartilagine, che funge da impalcatura per lo sviluppo dello scheletro e può esserne considerata parte integrante, comincia a formarsi appena prima.  

 Detto ciò, possiamo concentrarci sui punti salienti dell'embriologia umana descritta dal Corano:

- essendo dichiarato un fluido di poco valore, il liquido seminale non è evidentemente ritenuto essere da solo sufficiente alla procreazione, come invece creduto in molte culture antiche;

- si dice che il liquido seminale è composto da diverse sostanze, e che solo una di queste (nuṭfa, tradotto come goccia, o sulāla, essenza, utilizzato parallelamente per la creazione simbolica dall'argilla) è capace di fecondare, cosa scoperta solo negli ultimi secoli;

- l'insistenza sul fatto che solo una parte del liquido seminale giunge allo scopo può collimare anche col fatto che, in definitiva, un solo spermatozoo arriva a fecondare l'ovulo;

- si dice che il liquido seminale, o la sua parte fertile, è conservato in un luogo sicuro, e nella vaghezza ciò si può intendere sia prima che dopo essere emesso (ovvero nei genitali maschili e in quelli femminili) e sarebbe ugualmente congruo con ciò che avviene nella realtà;

- si dice che dopo l'emissione e/o la conservazione c'è un'aderenza, un'unione ('alaq), e ciò collima con la fecondazione dell'ovulo;

- si dice che dopo la fase dell'aderenza c'è quella dell'ammasso (muḍgha), e ciò collima con lo sviluppo dell'embrione in un insieme di cellule via via sempre più complesso;

- si dice che poi arriva la fase della formazione di ossa e carne, cioè muscoli e quant'altro, e ciò corrisponderebbe all'evoluzione dell'embrione in feto;

- si dice che durante la formazione alcune parti sono formate, ovvero proporzionate, e altre no, altra cosa che collima con la realtà;

- si parla di tre "oscurità" (ṭulumātin thalāthin) nel ventre materno, passo criptico che si può intendere in vari modi, compreso quello simbolico; sta di fatto che il feto si sviluppa dentro il sacco amniotico, che questo sta all'interno dell'organo specifico dell'utero, e che fra questo e le pareti uterine c'è la placenta.

Conclusioni. 

 Non si può dire che la creazione dell'Uomo come descritta dal Corano sia, come vogliono i "miracolisti" da Maurice Bucaille (scienziato che per primo rese famose le corrispondenze) a Keith L. Moore (che le confermò), completa e perfettamente dettagliata. Tuttavia sono sorprendenti, pur nella tipica indeterminatezza coranica, le effettive corrispondenze fra modelli presenti e nozioni della moderna embriologia. Se anche si potrebbe congetturare che alcune di esse potevano venire, con molta fantasia, dall'attenta osservazione (la natura composita del liquido seminale, la necessaria unione con una controparte femminile, l'intuibile evoluzione in fasi dell'embrione), è difficile fare lo stesso ragionamento per altre. Nello fattispecie sono significative le corrispondenze su questi punti: il fatto che solo una parte del liquido seminale sia fertile, il fatto che solo una parte di questa parte giunga allo scopo ovvero solo uno spermatozoo giunga a fecondare l'ovulo, l'evoluzione da aderenza/zigote ad ammasso/morula/etc, le tre principali strutture grazie alle quali può crescere il feto.

 Queste corrispondenze, insieme a quelle teoricamente intuitive, forniscono un quadro generale che è problematico collocare, per la sua correttezza di fondo, nel contesto che l'avrebbe generato: il Vicino Oriente della prima metà del VII secolo. Per quanto studiosi prescientifici persiani ed egiziani non fossero del tutto all'oscuro di alcune di queste nozioni, non ne avevano esatta contezza e le mischiavano a concezioni erronee, quando non considerabili al giorno d'oggi come frutto della superstizione. Invece, niente di tutto questo è presente in ciò che abbiamo visto: quel che ritroviamo nel Corano è sì vago, ma sufficiente per ricostruire un quadro coerente e relativamente preciso della questione, senza che vi siano riscontrabili errori.

 Di fronte a questa scomoda constatazione, la soluzione di chi non vuole saperne niente è ritornare all'indeterminatezza testuale, e negare le corrispondenze, o evolverle in modo tale da generare delle falle, o tirare in ballo le solite coincidenze. La soluzione dei miracolisti è invece, come sempre, quella di gridare al miracolo, e chiudere così la discussione senza ulteriori indagini. Ma come sappiamo c'è un'altra possibilità, quella che dichiara lo stesso Corano: Maometto aveva degli informatori d'eccezione, dotati di conoscenze e tecnologie per noi impensabili ancora oggi.

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¹ Corano 32:7-8.

² Corano 22:5.

³ Corano 76:2.

⁴ Corano 77:20-22.

⁵ Corano 86:5-7.

⁶ Corano 39:6.

⁷ Corano 23:12-14.

venerdì 4 ottobre 2024

Corano e scienza: la tela del ragno e le reti

 Fra i vari passaggi coranici spesso tirati in ballo quando si parla di "miracolo scientifico" ce n'è uno in cui il protagonista è un animale: il ragno, nella sura che proprio da questo elemento prende il suo nome popolare. Il passo è compreso nel seguente versetto: 

Coloro che prendono come patroni altri in vece di Dio sono come il ragno che si prende una casa. E la più fragile fra le case è la casa del ragno, se solo sapessero.*

 La metafora è semplice e al tempo stesso suggestiva, ma il modo con cui la si rapporta al suddetto "miracolo" è invariabilmente una banalizzazione che, come spesso accade, si traduce in un travisamento del suo significato. Per lo più si va dal ribadire l'ovvio che la tela del ragno, rispetto alla forza umana, è quasi inesistente, al mettere in evidenza che il verbo "si prende casa" (atakhadhatu) è al femminile, e la scienza moderna ha scoperto che sono in effetti i ragni femmina a costruire le tele più elaborate e funzionali. Se anche la seconda è una considerazione interessante, mentre la prima lascia il tempo che trova, entrambe vanno però a scontrarsi con un fatto: si è scoperto che la tela del ragno è uno dei materiali più resistenti in natura, svariate volte più dell'acciaio sebbene incomparabilmente più duttile. Quindi il fatto che il Corano abbia usato il verbo al femminile è semmai una precisazione che svaluta ulteriormente la considerazione più banale, dove altrimenti si sarebbe trovato il verbo al maschile. Dunque, prendendo per buone le contraddittorie spiegazioni fornite dai "miracolisti", il Corano avrebbe affermato un'inesattezza, negazione di quello stesso "miracolo" che si vorrebbe celebrare.

 Possiamo però fare una cosa, dato che ce lo permette la metafora: scambiarne i termini, ragionando all'inverso, e vedere cosa ne esce fuori. La tela del ragno è dichiarata fragile perché simile a chi si pone fuori dall'unica credenza coranicamente plausibile, quella nel dio unico Signore di tutti i mondi (Rabb al-'Alamīn). Quindi cos'ha di particolare lo stare fuori da questa realtà, l'unica dichiarata tale, le altre essendo una finzione ovvero un abbaglio? E cosa c'è in un atteggiamento sociale umano quale la pratica cultuale che si potrebbe rapportare alla tela del ragno?

 La risposta è in ciò che sia la tela del ragno sia una comunità umana sono: una rete. Nel mio manuale dimostro ampiamente come sia questo il modello che il Corano propone come forma iniziale e compiuta dell'islam, e come ciò sia fatto in modo tale da agganciare questa rete globale ad un'altra rete già esistente e molto, molto più ampia, idealmente e un giorno forse anche fisicamente.

 Per sinteticità, nel manuale ho definito questa come teoria delle due reti, intendendo due tipi complementari: le reti particolari, potenzialmente infinite, e la rete universale, che può essere solo una ed è formata dall'unione delle prime. Secondo quanto emerge dal Corano analizzato con questa chiave di lettura, cioè togliendo tutte le stratificazioni interpretative che si sono accumulate nei secoli e si rifanno sempre al passato, i malā'ika (gli angeli, che io definisco operatori) starebbero impiantando sulla Terra la connessione alla rete universale, per e con gli Uomini, come in forme diverse, ma con lo stesso scopo, su infiniti altri pianeti abitati. Ovviamente con modalità che, ça va sans dire, per noi sono tecnicamente incomprensibili e con tempistiche, dichiarate relative, che a noi sembrerebbero imponderabili**.

 Il credere in un solo principio assoluto, non rappresentabile e per questo condivisibile dai credenti di ogni provenienza al di là di qualunque differenza fisica e mentale, cioè nominalmente il dio unico, non è insomma nient'altro che una precondizione per l'aggancio di una qualsiasi rete particolare a quella universale. Invece la tela del ragno e un culto rivolto ad una o più divinità specifiche, locali, che cioè genera una comunità i cui più alti principi sono necessariamente autoreferenziali, hanno entrambi la caratteristica di essere delle reti a se stanti, non agganciabili ad altre reti o comunque non alla più grande, quella universale. E questo al netto della loro solidità relativa. Qua, e non in altro, risiede la loro debolezza.

 E qua risiede il senso della metafora della tela del ragno e la scientificità del Corano, il suo ennesimo modello metafisico, declinabile in questo caso come modello sociale, che non è un "miracolo" bensì, per l'appunto, scienza. Una scienza che, rapportata al VII secolo quando fu fissato il testo coranico, e non solo, va oltre le nostre conoscenze.

* Corano 29:41.

** Gli angeli e lo Spirito ascendono a Lui [Dio] in un giorno la cui durata è di cinquantamila anni. [70:4] | Invero un solo giorno presso il tuo Signore vale come mille anni di quelli voi che contate. [22:47].

Schema tratto dal manuale di connessione dove si rappresenta staticamente il concetto di rete, costituita da diversi nodi e linee di comunicazione compatibili, come desumibile dal Corano. I punti con più di una linea rappresentano i nodi ricetrasmettitori, e quelli con una sola linea, da intendersi come monodirezionale in entrata, quelli solo ricevitori. Le x sono off line, e non ne fanno parte. Punti e x possono rappresentare diversi individui, comunità, popoli, pianeti, e quant'altro, che riconoscano il primato del principio unico, nel caso degli host, o che lo disconoscano, nel caso dei kāfirūna. Possono rappresentare anche reti interne, che hanno reti interne, che hanno reti interne, ad infinitum. O ad Deum. Nel caso delle reti, le x rappresentano per l'appunto quelle "fragili", in conflitto cioè disconnesse da quella universale. Nota bene: questa sarebbe solo l'istantanea di una parte della rete, collegata ad altre reti.

martedì 6 agosto 2024

Tracce di frequentazioni arabo-islamiche nella penisola del Sinis

 Ho prodotto un paper (link di seguito) su due reperti archeologici della penisola del Sinis, in provincia di Oristano, riferibili alla presenza, del tutto temporanea o in parte stanziale, di genti arabe o arabofone: le iscrizioni dell'ipogeo di San Salvatore e l'anello-sigillo rinvenuto nelle acque di Su Pallosu (in foto). Fra le varie cose, propongo una decifratura inedita del calligramma presente nell'anello-sigillo: non al-Mulku li-llāhi Waḥda-hu (الملك لله وحده), ovvero “La sovranità appartiene solo a Dio”, ma al-Makru li-llāhi Waḥda-hu (المكر لله وحده), che si può rendere come “L’astuzia è solo di Dio” e prenderebbe ispirazione direttamente dal Corano.

 In generale si tratta di un'analisi dal taglio accademico, su un argomento che si avvicina più agli studi con cui mi sono cimentato in passato che non alle mie ultime ricerche. Non del tutto però, perché anche qua provo a far luce su dei misteri, sui "secoli bui" della storiografia sarda, e anche qua c'è qualcosa di spirituale che si intravede in lontananza. Buona lettura.

 https://www.academia.edu/122602846/Tracce_di_frequentazioni_arabo_islamiche_nella_penisola_del_Sinis

 N.B. per la consultazione non c'è bisogno di un account, basta scorrere verso il basso fino all'articolo. Qualora alcune lettere delle traslitterazioni apparissero formattate in modo anomalo consiglio l'apertura con un browser diverso.

sabato 8 giugno 2024

Le piramidi e il Corano

  Un recente studio prodotto dall'Università della Carolina del Nord a Wilmington ha stabilito che, con un alto grado di probabilità, le piramidi egizie furono costruite grazie ad un grosso corso d'acqua ulteriore a quello odierno del Nilo, finora sconosciuto perché prosciugato da millenni. Ci sono inoltre le prove che ci fossero altri rami. Morfologicamente, l'antico Egitto era quindi molto diverso da quello attuale, essendo attraversato da più corsi d'acqua di varia portata. Sorprendentemente, su questo fatto possiamo riscontrare delle corrispondenze con ciò che riporta il Corano, un testo fissato vari millenni dopo e con in mezzo un enorme buco nella catena di trasmissione delle conoscenze.

 Partiamo da lontano, con uno dei pochi passaggi biblici (oltre a quello riportato c'è Es 7:19, molto simile) riconducibili a ciò di cui si sta parlando:

Il Signore disse a Mosè: "Di' ad Aronne: "Stendi la mano con il tuo bastone sui fiumi, sui canali e sugli stagni e fa' uscire le rane sulla terra d'Egitto!"". (Es 8:1, Bibbia CEI 2008)

 Non si parla quindi di un solo fiume, il Nilo, ma di più corsi d'acqua facenti parte dello stesso complesso idrico.
 Venendo al Corano, un passo presenta una scena che mette in relazione questi corsi proprio coi faraoni, ovvero con una loro rappresentazione stilizzata nominata فرعون (Fir'aūn):

Faraone arringò il suo popolo dicendo: "Mio popolo, forse non appartiene a me il regno d'Egitto, con questi fiumi che scorrono ai miei piedi? Non vedete dunque?" (Q* 43:51)

 La cosa interessante è che molti di questi corsi d'acqua, e in particolare il secondo ramo del Nilo di portata simile a quello principale, dovrebbero essere scomparsi più di 4'000 anni fa, e non vi è traccia di informazioni in merito da altre fonti antiche. E sebbene si ipotizzasse da tempo della loro esistenza, mai prima d'ora li si era messi in relazione diretta con le piramidi.
 È interessante anche notare che, stranamente e contrariamente a ciò che è impresso nell'immaginario comune, la Bibbia non menziona le piramidi egizie, né esplicitamente né implicitamente. Il Corano invece cita più volte una costruzione, anche in questo caso rappresentante un'intera casistica, protesa verso il cielo, e il cui costruttore diventa anch'esso rappresentativo di tutti i costruttori:

Disse Faraone: “[Miei] sottoposti, per voi non conosco altra divinità che me stesso. Hāmān, accendi un fuoco sull'argilla e costruisci per me un edificio, affinché io possa vedere [se c'è] il Dio di Mosè! Io penso che sia uno dei [tanti] bugiardi”. (Q* 28:38)

Disse Faraone: "Hāmān, costruisci per me un edificio [così alto] che io possa raggiungere le vie dei cieli, e possa vedere [se c'è] il dio di Mosè, [perché] io lo ritengo un bugiardo". Così fu fatta sembrare buona a Faraone la sua cattiva condotta, e fu sviato dalla [retta] via. Il suo piano non fu altro che [destinato al] fallimento. (Q* 40:36-37)

 Quest'ultimo passo è particolarmente significativo perché pare che gli egizi chiamassero le piramidi col nome MeR, traducibile come "luogo che va verso l'alto", ma questa è una nozione della moderna egittologia che non si ha prova fosse nota al tempo e nel luogo della rivelazione coranica. Certo, lo slancio verso il cielo delle piramidi parla da solo, così come non passa inosservata la loro mole colossale, e in definitiva è abbastanza evidente si stia alludendo ad esse. Ma non era scontato leggerne nel Corano perché, ad esempio, la Bibbia non ne fa cenno.
 Il primo passo è sorprendente per l'accostamento col fuoco e ciò per almeno due motivi che non per forza si autoescludono (impiegando normalmente il Corano la sommatoria di significati):

 ١ - l'etimologia della parola 'piramide', con cui la loro fama si diffuse nel mondo antico, è dal greco πυραμίς (pyramis), che letteralmente significa "a forma di fuoco" cioè di fiamma; in arabo 'piramide' si dice هرم (haram, parola che sostanzialmente vuole dire "cosa molto vecchia") e per queste costruzioni il Corano usa il termine صرح (ṣarḥ, letteralmente 'edificio' ma anche 'palazzo'), come detto in accostamento al salire in alto, cosa che riporta al significato originale egizio. Ma c'è anche l'accostamento al fuoco, nonostante sembri improbabile che Maometto conoscesse tanto la parola egizia quanto il significato di quella greca.

 ٢ - l'archeologia non è ancora riuscita a stabilire come siano state costruite esattamente le piramidi, ma tradizionalmente (dai tempi di Erodoto e Diodoro Siculo) le si ritiene fatte per lo più di blocchi di pietra tratti da cave; ciò però lascia irrisolte molte questioni, prima fra tutte quelle su come siano stati intagliati i blocchi, non essendo stato ritrovato né raffigurato alcuno strumento adatto, e su come sarebbero stati trasportati. A partire dagli anni '70 è stata però proposta da vari scienziati (Davidovits, Barsoum, Hobbs) una controversa ipotesi, ancora minoritaria, per cui la tecnica principale sarebbe stata l'assemblamento di blocchi cementizi messi in opera in situ. Per realizzarli (con conoscenze evidentemente più avanzate di quanto finora presupposto) sarebbe stato necessario miscelare e cuocere vari materiali formanti proprio una sostanza argillosa da versare in stampi lignei. Raffermandosi, si sarebbero formati i blocchi calcarei. Fra l'altro, ciò troverebbe delle corrispondenze con l'accertata deforestazione a cui è andata incontro l'area. E poiché oltre alla legna da ardere e per gli stampi sarebbero servite anche enormi quantità d'acqua, sarebbe interessante valutare se il prosciugamento di questo grande corso non sia riconducibile, insieme ad altre concause ancora tutte da scoprire o ampliare, alla stessa ipotesi.

 Un ultimo appunto riguarda l'apparente divergenza sulla funzione principale da attribuire alle piramidi: se per l'egittologia si trattava sostanzialmente di sepolcri regali, per il Corano erano, secondo quanto visto, una sorta di ponti verso il cielo. Ma, al netto di questi corollari narrativi, in entrambi i casi furono costruite sostanzialmente come simbolo del potere divino di cui si fregiavano i faraoni. Anche in questo caso, il Corano riporta un qualcosa a cui la moderna scienza, in questo caso storiografica, è arrivata solo recentemente, attraverso l'acquisizione di conoscenze che erano andate perdute per millenni.

 A questo proposito non rimane che chiudere con un altro passaggio coranico, senza bisogno di ulteriore commento se non che il soggetto narrante, non esplicitato, possono essere ritenuti gli angeli (con un plurale semplice) o Dio (con un plurale maiestatico) mentre l'oggetto è sempre lui, Fir'aūn:

Oggi ti salveremo col tuo corpo, affinché tu sia, per quelli che verranno dopo di te, un segno. Ma in verità la maggioranza degli uomini sono incuranti dei nostri segni. (Q* 10:92)

 * traduzioni mie, letterali, con aggiunte esplicative fra le parentesi quadre.

Immagine illustrativa dello studio, con in evidenza l'altro corso del Nilo. Crediti: Eman Ghoneim et al. 

lunedì 27 maggio 2024

La Divina Scala: similitudini e differenze fra la Divina Commedia e il Libro della Scala

 Come ormai abbastanza noto, esistono diverse affinità fra la Divina Commedia di Dante Alighieri e la letteratura del Libro della Scala (Kitāb al-Mi'rāj), un insieme di testi islamici medievali di cui per comodità parleremo come di un testo unico. Fu infatti uno di questi testi, anonimi ma riportanti sostanzialmente la stessa storia di autore incerto, ad essere tradotto dall'arabo in latino, castigliano e provenzale, alla corte di Alfonso X di Castiglia. Ciò avvenne nella seconda metà del XIII secolo, qualche decennio prima che Dante cominciasse a vergare la sua Divina Commedia, ed è certo che queste traduzioni presero a girare presso gli intellettuali dell'allora Cristianità. Tutto questo è però rimasto sottotraccia, finché all'inizio del '900 diversi studiosi non hanno cominciato a rilevare e divulgare le somiglianze fra i due testi, ipotizzando che Dante avesse attinto direttamente da una delle suddette traduzioni.

 Al giorno d'oggi esistono due scuole di pensiero: quella che continua a negare il collegamento, sempre più minoritaria, e quella che lo afferma. A sua volta in questa corrente c'è chi parla di un'ispirazione, chi di una sorta di plagio, chi di una sorta di tributo esoterico. Questa diatriba è destinata a durare ancora, e si lascia la discussione ai tanti che se ne stanno occupando*. Qua ci limiteremo ad elencare alcune delle più evidenti similitudini e differenze fra i due testi, lasciando al lettore decidere quale sia il rapporto più plausibile fra di essi.

Similitudini.

 La catabasi. Entrambi i testi narrano di un viaggio nell'Aldilà con il protagonista che descrive in prima persona la sua esperienza: nel Libro della Scala è Maometto, nella Divina Commedia è Dante.

 La guida. In entrambi i testi il protagonista ha un compagno che fa da Cicerone principale, ovvero l'arcangelo Gabriele nel Libro della Scala e Virgilio nella Divina Commedia. Entrambi illustrano al protagonista il funzionamento dell'Aldilà. Entrambi a un certo punto devono abbandonare il compagno, cosicché nel Libro della Scala Maometto viene assistito da Michele mentre Dante da Beatrice e infine dalla Madonna.  

 L'Aldilà su tre livelli. In entrambi i testi ci sono due esiti principali, beatitudine eterna o eterna condanna, con però la possibilità di una redenzione in extremis. Se nella Divina Commedia il Purgatorio è dato come elemento strutturale, benché sostanzialmente inedito, nel Libro della Scala è creato da Dio grazie all'intervento di Maometto che chiede e ottiene che un certo numero di anime sia continuamente perdonato.

 Il contrappasso. La legge divina secondo la quale le punizioni dei dannati sono proporzionali e ispirate ai loro peccati, è presente in entrambi i testi. Ancor prima, è chiaramente (seppur simbolicamente) presente nel Corano, ma non nella Bibbia.

 La scala. Nel Kitāb al-Mi'rāj la scala è il principale mezzo con cui Maometto ascende al Cielo, nella Divina Commedia compare come elemento strutturale in vari punti, dall'Inferno al Paradiso. In entrambi i testi può essere intesa come rappresentazione dell'ascesa mistica.

 Il trasporto. In entrambi i testi il protagonista è per certi tratti trasportato da figure sovrannaturali, notabilmente il Burāq nel Libro della Scala e Caronte nella Divina Commedia.

 Gli incontri con figure importanti. Entrambi i testi presentano incontri e dialoghi nell'Aldilà con figure religiose e storiche; nel Libro della Scala Maometto incontra profeti e patriarchi, e nella Divina Commedia Dante incontra, oltre a profeti e patriarchi, anche personaggi della mitologia classica e dalla storia medievale.

 La porta dell'Inferno. Nel Libro della Scala c'è una porta che fa da entrata per l'Inferno e vi è incisa la shahādah, testimonianza di fede islamica. Ciò simboleggia che tutto, compreso l'Inferno, rientra nel piano divino. Dopo esservi passato attraverso, Maometto incontra un angelo che fa da tesoriere ovvero guardiano dell'Inferno. Nella Divina Commedia Dante incontra Pluto, dio della ricchezza nella mitologia classica che fa da guardiano del quarto cerchio dell'Inferno, e questi pronuncia la famosa frase: Pape Satàn, pape Satàn aleppe. La derivazione è incerta ma una delle più plausibili è dall'arabo Bāb al-Shaytān, che vuol dire "porta del diavolo", mentre non vi è consenso su come interpretare aleppe: una delle possibilità è che stia per la lettera ebraica alef, ovvero per quella araba 'alif, oppure che sia da ricondursi all'imperativo labba, fermarsi, sempre in arabo.

 La figura femminile. Nella Divina Commedia la figura di Beatrice assume progressivamente delle caratteristiche celestiali, e ugualmente nel Libro della Scala a Maometto viene mostrata la sovrannaturale figura femminile di una urì. In entrambi i casi sono figure connesse al divino.

 La visione di Dio. Entrambi i protagonisti si dichiarano impossibilitati a descrivere ciò che vedono una volta arrivati al cospetto di Dio. Se però nella Divina Commedia Dante aggiunge successivamente delle descrizioni simboliche, nel Libro della Scala Maometto si ferma alla constatazione dell'impossibilità. In entrambi i testi c'è però lo stesso elemento coreografico che, pur non essendo esso stesso Dio, caratterizza la visione: un nugolo di angeli che ruotano vorticosamente. 

 L'uso di simbolismi. In generale, entrambi i testi fanno largo uso di un linguaggio allegorico per rappresentare concetti religiosi e filosofici.

Differenze.

 Il Libro della Scala è in prosa, la Divina Commedia in versi.

 La Divina commedia è notevolmente più estesa del Libro della Scala.

 Il Libro della Scala è stato scritto in arabo classico, lingua comune nell'islam medievale a tutti gli ambiti del sapere, mentre la Divina Commedia è vergata in volgare italiano, una lingua che a livello letterario stava appena esordendo e che per questo si distacca sia dalla letteratura precedente, tanto sacra quanto profana, sia da quella coeva di pertinenza puramente sacrale e prescientifica.

 Il tono del Libro della Scala rimane sempre sacrale, formale, mentre quello della Divina Commedia mischia sacro e profano, quando non diventa addirittura triviale.

 Il viaggio inizia nel Libro della Scala con Maometto che viene chiamato da Gabriele quando si trova in un'abitazione, mentre nella Divina Commedia con Dante che si trova disperso in una foresta. Tuttavia in entrambi i casi si suggerisce che il viaggio è anche da intendersi come onirico.

 Nel Libro della Scala Maometto viene primariamente trasportato dal Burāq, mentre nella Divina Commedia Dante incontra successivamente dei trasportatori.

 Nel Libro della Scala (come prima ancora nel Corano) sono gli angeli ad amministrare le beatitudini e ad impartire le punizioni, mentre di queste ultime nella Divina Commedia si occupano i demoni. Nel Libro della Scala, tuttavia, gli angeli che si occupano delle punizioni hanno caratteristiche che potremmo definire demoniache.

 Nella Divina Commedia Dante rimane sostanzialmente uno spettatore, mentre nel Libro della Scala Maometto è parte attiva del racconto: grazie alle sue richieste a Dio si stabilisce la possibile redenzione post mortem (ovvero il Purgatorio) e si riduce il numero di preghiere giornaliere, che passa da cinquanta a cinque.

 Nel Libro della Scala la figura femminile celestiale (la urì) è conseguenza e non causa della visione divina, mentre nella Divina Commedia la Beatrice idealizzata e la Madonna giocano il ruolo di tramite necessario. Va però notato che quando Maometto viene invitato da Gabriele, e quando torna, ovvero nel mentre del viaggio onirico, si trova a casa della prima donna con cui si sarebbe voluto sposare, la quale fu data in sposa ad un altro uomo a causa della povertà di entrambi. Il suo racconto inizia con queste parole: "Ero a casa di Fakhitah...". Curiosamente, le biografie di Dante ci dicono che neanch'egli si poté mai sposare con Beatrice.

 Nel Libro della Scala Maometto incontra Gesù, e vi interagisce come fa con gli altri profeti, mentre nella Divina Commedia ciò non avviene con Dante. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe non conoscendo l'opera, né la figura né il nome di Gesù sono presenti, se non, secondo gli studiosi, in maniera simbolica.

 Nella Divina Commedia il racconto è tutto in prima persona e si chiude al culmine del viaggio. Nel Libro della Scala c'è una brevissima introduzione, un ritorno alla condizione iniziale e un epilogo in terza persona con Maometto che il giorno dopo prende a raccontare la sua esperienza notturna.

~

 Come note finali aggiungo delle considerazioni. Nel Medioevo non esisteva il concetto di plagio, e un possibile rapporto diretto fra i due testi non toglierebbe niente, come taluni temono, alla grandezza della Divina Commedia, ma anzi la mostrerebbe sotto una luce nuova e volendo più intensa. Piuttosto, al tempo esistevano i concetti di eresia e apostasia, accuse per le quali si rischiava la vita. Oltre a questo, un qualunque testo con un simile marchio avrebbe potuto circolare ancor meno di altri che, come il Libro della Scala o i trattati di Averroè ed Avicenna, erano comunque considerati d'importazione. È quindi perfettamente logico che, di qualunque rapporto si possa trattare, questo sarebbe dovuto essere coperto sotto ’l velame de li versi strani. Parimenti, è comprensibile che permangano reticenze ad accettare l'eventuale cambio di un paradigma che dura da secoli. Ma ciò non deve impedire che ora questo avvenga, perché i tempi sono maturi per trovare nella Divina Commedia dei significati che possono parlare al passato quanto al presente. E perché gli strumenti per farlo si possono ritrovare proprio nel mezzo del cammino. Certo, a meno che non si sia così concentrati sul presente da non aver interesse a salire a le stelle.

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* Fra i tanti studi segnalo: Dante e l'Islam. La controversia sulle fonti escatologiche musulmane della Divina Commedia, V. Pucciarelli (2012, Irfan); Il libro della Scala di Maometto, A. Longoni (2019, BUR); Dal Corano alla Divina Commedia. Un mistero ancora irrisolto nella storia della letteratura, O.A. Bologna, H. Haidar (2021, Diarkos); Così il Profeta scalò i cieli. Dalle rielaborazioni arabe e persiane del mi‘rag di Muhammad al Libro della Scala e la Commedia di Dante, C. Saccone (2022, Ist. per l'Oriente C.A. Nallino).

Opera calligrafica di Eyas Alshayeb conservata presso il Centro di cultura italiana Dante Alighieri ad Amman (Giordania).

sabato 11 maggio 2024

Corrispondenze fra i colori nel Corano e il processo visivo nell'Uomo

Abstract: rilevazione di corrispondenze fra caratteristiche del testo coranico e nozioni scientifiche moderne, in questo caso ascrivibili in particolare alla fisiologia umana e nello specifico al processo visivo.

 Nel testo del Corano sono 7 i colori citati col loro nome proprio:

 - bianco, in arabo 'abyaḍ (versetti 2:187, 7:108, 20:22, 26:33, 27:12, 28:32, 35:27, 37:46, 3:106, 3:107, 12:84);

 - nero, in arabo 'aswad (2:187, 16:58, 35:27, 39:60, 43:17, 3:106, 3:106);

 - verde, in arabo 'akhḍar (6:99, 12:43, 12:46, 18:31, 22:63, 36:80, 55:76, 76:21);

 - rosso, in arabo 'aḥmar (35:27);

 - giallo, in arabo 'aṣfar (2:69, 30:51, 39:21, 57:20, 77:33);

 - blu, in arabo 'azraq (20:102);

 - grigio¹, in arabo shayb (19:4, 30:54, 73:17). 

Visualizzazione dei colori menzionati dal Corano, col numero romano di ricorrenze per ognuno. A differenza degli altri, il grigio è rappresentato dallo sfondo, e il numero sono le bande verticali fra le coppie. Non si sarebbe potuto infatti usare uno sfondo meno "neutro". Oltre a questo, c'è da notare che ogni numero è indicato col rispettivo colore complementare, mentre il grigio assoluto in teoria non ne ha uno. Perciò ho scelto arbitrariamente lo stesso del bianco, ma, come vedremo, non è una scelta del tutto arbitraria.

 Va subito precisato che i colori saranno considerati (perché così ci invita a fare l'analisi) in senso astratto, ideale, e che idealmente il bianco assoluto non è un pigmento, essendo invece la somma di tutti i colori dello spettro visibile, ma è comunque considerabile come un colore nel senso visivo della percezione. Viceversa il nero assoluto è in astratto la sottrazione di tutti i colori dello spettro visibile, ma è ugualmente considerabile come un colore nello stesso senso. Per analogia, il discorso è simile per il grigio assoluto, che può essere considerato come un prodotto del rapporto fra nero e bianco, ma che noi percepiamo comunque come un colore. Vedremo che è proprio con la percezione umana che troveremo le prime corrispondenze, e che è possibile trovare una corrispondenza specifica anche per la particolarità della coppia bianco-nero, ovvero anche per quella del grigio, cioè in definitiva per la dicotomia luce-buio.

 Oltre ai 7 colori citati, è possibile rintracciare il richiamo ad altri ma in modo indiretto, allusivo: ad esempio il versetto 55:37 usa il costrutto وردة كالدهان (letteralmente "una rosa come tinta") per descrivere un violaceo cielo escatologico; 55:64 riporta il participio مدهامتان (che ha che fare con l'oscurità) per descrivere il fitto ombreggio verdeggiante dei giardini paradisiaci; 87:5 per rappresentare l'immagine dei pascoli che appassendo diventano fieno utilizza l'aggettivo أحوى, a volte tradotto come "marrone" o "color ruggine" perché indicante qualcosa che imbrunisce; 35:27 usa il costrutto غرابيب سود (letteralmente "[come di] corvi neri") per descrivere il nero corvino di certe montagne.

 Poiché le allusioni sono comunque vaghe e non usano i nomi precisi dei colori, o vi si aggiungono per evocare delle sfumature, hanno poca e nessuna consistenza le rilevazioni di "miracoli" del Corano che si basassero su di esse: dalla supposta corrispondenza coi colori dell'arcobaleno scegliendo selettivamente quali delle sfumature aggiungere al conto, a quella con le ripetizioni del termine لون, colore, passando per quella con la sintesi additiva e sottrattiva, sempre tramite scelte selettive. Simili proclami, e ne ho riscontrati parecchi, si fanno spesso e volentieri beffe della vera scienza a partire dal fatto che solitamente non considerano i colori per quello che sono: lunghezze d'onda senza soluzione di continuità, che solo per comodità isoliamo e identifichiamo con quelle più rappresentative.

 Filosoficamente, e non solo, si può affermare che una tavolozza dei colori universale in sé non esiste. Fisicamente, esclusa quindi la percezione soggettiva, i colori non sono altro che i diversi prodotti del rapporto fra riflessione e assorbimento della luce. È anche vero però che, in proposito, c'è qualcosa di non del tutto relativizzabile: la biologia, e, nello specifico, il processo visivo fisiologico nell'Uomo.

 Quel che porto primariamente all'attenzione, in modo inedito a quanto ho potuto verificare, è che i colori nominati esplicitamente dal Corano corrispondono, con l'aggiunta del grigio, a quelli della teoria dell'opponenza cromatica, o teoria del processo opponente, proposta per la prima volta nel 1872 dal fisiologo tedesco Ewald Hering. Ad oggi questa teoria, che integra la teoria tricromatica di Young-Helmholtz, rimane uno dei pilastri fondamentali per la comprensione della percezione umana del colore, spiegandola attraverso un meccanismo di antagonismo fra 3 coppie:

 - rosso-verde;

 - blu-giallo;

 - bianco-nero.

 Il grigio può e deve essere considerato come un caso a parte da ricomprendere nella coppia bianco-nero, ma come evidente per il resto sono gli stessi colori nominati esplicitamente dal Corano. Per cui, con metodo, andiamo a sondare la teoria per capire meglio i possibili aspetti della corrispondenza.

 Hering sostanzialmente osservò che certi colori sembrano essere complementari ad altri. Ad esempio, non possiamo percepire simultaneamente una luce rossastra e una verdastra nello stesso punto del campo visivo. O, ancora, non possiamo parlare di giallo tendente al blu e viceversa, perché questi colori si escludono vicendevolmente, mentre possiamo parlare di giallo tendente al rosso o di blu tendente al verde. Per il bianco e il nero possiamo notare che luminosità e buio sono inversamente proporzionali.

 C'è da dire che la scienza non è ancora giunta a capire l'esatto funzionamento di questi processi. Hering arrivò alla teoria grazie soprattutto all'osservazione fenomenica, benché supportata da esperimenti, e ipotizzò l'esistenza di cellule gangliari retiniche antagoniste. Studi successivi parlano di altri tipi di cellule coinvolte nei processi: amacrine, bipolari, orizzontali, interneuroni corticali. Sebbene ognuno di questi studi sia supportato da proprie evidenze, il modo preciso in cui queste cellule operino e/o interagiscano fra loro per generare la percezione del colore è ancora oggetto di indagine.

 Sono state mosse anche delle critiche alla teoria formalizzata da Hering, prime fra tutte quelle che si basano sulla mancata comprensione dell'esatto funzionamento biologico dei processi, ma tuttavia ciò non ne mina la validità generale: che sia determinata da cellule specifiche, dall'interazione di varie attività o da operazioni successive a livello puramente neurale, la teoria dell'opponenza cromatica continua a spiegare come il cervello umano interpreta i segnali che gli giungono dall'apparato visivo, integrando così la teoria tricromatica di Young-Helmholtz secondo cui la percezione dei colori è determinata da tre tipi di fotorecettori (coni) che sono stati effettivamente individuati nella retina umana, ovvero quelli per il verde, quelli per il rosso e quelli per il blu. In realtà esiste anche la visione monocromatica, assicurata principalmente da un altro tipo di cellule fotosensibili presenti nella retina: i bastoncelli. Il loro lavoro completa quello dei coni, essendo più sensibili alla luce e al movimento proprio perché dedicati solo alle variazioni di luminosità e non ai dettagli cromatici.

 Quindi la posizione attualmente più accreditata presso la comunità scientifica è che teoria tricromatica e teoria dell'opponenza cromatica non siano in opposizione ma spieghino, insieme anche alla monocromia, il funzionamento generale del processo visivo attraverso due fasi successive: la teoria della visione tricromatica spiega come, insieme alla visione monocromatica, avviene la conversione della luce in segnali elettrici da inviare al cervello, mentre l'opponenza cromatica spiega come vengono interpretati i segnali.

 In definitiva si può sintetizzare che le 3 coppie antagoniste identificate dalla teoria dell'opponenza cromatica rappresentano la nostra codifica neurale delle informazioni cromatiche. E queste 3 coppie contengono gli stessi colori nominati esplicitamente dal Corano, con solo l'aggiunta del grigio che si può ricomprendere nella coppia bianco-nero.

Schematizzazione del processo visivo nell'essere umano.

 Stante quanto detto, ci sono da vagliare, a conferma o confutazione di corrispondenze con la nostra biologia, i rapporti numerici fra le ricorrenze dei colori, se ve ne sono. 

 Poiché il testo del Corano è tradizionalmente suddiviso in versetti, e poiché la lingua araba funziona per radici da cui originano parole di diverso significato, per vagliare questi rapporti bisogna scegliere un metodo ed attenervisi, non mischiarne vari come spesso mi capita di constatare nelle rilevazioni di "miracoli". Quello in assoluto più attendibile (poiché è possibile che il rasm originale del Corano non contenesse suddivisioni dei versetti o comunque di non tutti) è quello che tiene conto solo delle singole ricorrenze, e nella scelta fra l'utilizzare le radici o i significati (livello tecnicamente e sinteticamente definibile come maṣdar) scegliamo quest'ultimo perché anch'esso più preciso². Risulta quindi che il numero di ricorrenze per ogni singolo colore (ovvero il significato preciso del colore che origina da radici da cui derivano anche parole non attinenti direttamente al colore) è il seguente:

- bianco, 11;

- nero, 7;

- verde, 8;

- rosso, 1;

- giallo, 5;

- blu, 1;

- grigio, 3. 

 Ora osserviamo se ci sono dei rapporti. 

 Un primo dato che salta all'occhio è che le 3 ricorrenze del grigio danno un multiplo di tutte le coppie della teoria dell'opponenza cromatica: il 18 che si ottiene con la somma della coppia bianco-nero, il 9 che si ottiene con la somma della coppia verde-rosso e il 6 della coppia giallo-blu, cosa che rafforza la corrispondenza. 

 Una qualche ratio sembra esserci, ma una prova più solida verrebbe dal riscontrare un rapporto incrociato con la teoria tricromatica e/o con la visione monocromatica. Possiamo ripartire da quest'ultima, dal fatto che funzioni senza fare distinzioni fra i colori ovvero fra le varie lunghezze d'onda. Insieme alla particolarità teorica della coppia bianco-nero, cioè della dicotomia luce-buio, ciò suggerisce di fare delle comparazioni fra questa coppia e le altre due, vagliando quindi se ci possa essere una qualche corrispondenza su questo. Una prima annotazione apparentemente banale è che, separata la coppia bianco-nero dalle altre, i colori rosso e blu, ovvero i complementari di verde e giallo, ricorrono entrambi una sola volta. Ma siamo sempre all'interno della teoria dell'opponenza cromatica, mentre quelli che si stanno ricercando sono dei rapporti con le altre fasi del processo visivo. 

Schematizzazione dell'opponenza cromatica che evidenzia tre caratteristiche: il rapporto diverso fra la coppia bianco-nero e le coppie verde-rosso e giallo-blu; la gradualità con cui si passa da un estremo ideale di una coppia all'altro; la centralità del grigio.

 Torniamo sul grigio, questo colore considerato neutro e generalmente insignificante. Abbiamo detto che è una via di mezzo fra bianco, che idealmente rappresenta la luce, e nero, che ne rappresenta l'assenza cioè il buio. Il grigio assoluto idealmente riflette tanta luce quanta ne assorbe. Quindi partendo da un perfetto bilanciamento di presenza e assenza, finché non si arriva al buio totale c'è sempre una certa percentuale di luce. E fra l'altro il Corano impiega per il grigio la sola parola shayb che in una vasta gamma (رمادي, grigio generico, غامق, grigio scuro, أخزر, grigio verdastro) indica con precisione un grigio tendente al bianco. Ha quindi perfettamente senso, e anzi il Corano sembra suggerirlo, sommare le 3 ricorrenze del grigio con le 11 del bianco: otteniamo 14, e consideriamo questa cifra come rappresentante non più il bianco ma la luce. 14 è il doppio di 7, numero delle ricorrenze del nero che in questo caso rappresenta il buio.

 Ora, il buio è assenza, non-esistenza, non-presenza, e ugualmente la teoria tricromatica ci dice che non esistono i coni del giallo. Ciò porta a confrontare ciò che "esiste" con ciò che "non esiste" ovvero non è presente.

 Prima di tutto troviamo che le ricorrenze dei colori verde, rosso e blu, cioè della visione tricromatica, danno come cifra 10, e 10 è il doppio delle 5 ricorrenze degli inesistenti coni del giallo. Come 14 lo è di 7. Abbiamo trovato una ratio, ma non è tutto. Le 7 ricorrenze del buio e le 5 del giallo insieme producono la cifra 12. Tutte le altre ricorrenze messe insieme, ovvero quelle del bianco, del grigio e dei tre colori della visione tricromatica, producono invece la cifra 24. Anche qua abbiamo un doppio e una metà. 

 Viene fuori la seguente proporzione fra la coppia bianco-nero (che volendo rappresenta la visione monocromatica), le altre due coppie (che volendo rappresentano la visione tricromatica), e la loro somma totale (che volendo rappresenta l'intero processo di conversione della luce in segnali elettrici da inviare al cervello): 

14 : 7 = 10 : 5 = 24 : 12

 Un rapporto non casuale pare esserci, e lo si trova proprio mettendo in conto tanto la visione tricromatica quanto la particolarità della percezione della luminosità, ovvero la visione monocromatica. Nonché, ancor prima, le proprietà fisiche della luce stessa. E oltretutto questo rapporto è di 2 a 1: non è scontata la corrispondenza con il fatto che noi umani, come la maggior parte dei vertebrati, percepiamo un'immagine unica a partire da un apparato visivo doppio, perché, ad esempio, gli insetti, i crostacei e la maggior parte degli aracnidi hanno occhi compositi. E chissà, esseri senzienti su altri pianeti magari hanno un rapporto di 4 a 1 o di 13 a 18. La nostra è quindi una visione binoculare, che fra l'altro è caratterizzata da 3 diversi fenomeni come 3 sono le proporzioni equivalenti trovate: percezione simultanea; fusione; stereopsi. Ognuno ha a che fare col rapporto di 2 a 1 e rappresenta anche uno stadio precedente al successivo, necessario per arrivare infine alla composizione dell'unica immagine tridimensionale: la percezione simultanea è la capacità di entrambi gli occhi di apprezzare e trasmettere nello stesso istante due immagini parzialmente sovrapposte; la fusione è la capacità di coordinare gli assi visivi e formare, da due immagini affette da diversa parallasse, una rappresentazione visiva singola; la stereopsi, anche detta visione tridimensionale, è la capacità del cervello di fare valutazioni fra le due diverse immagini per trarne informazioni sulla profondità e la posizione spaziale degli oggetti.

 Non essendo però da escludere che si possano trovare altri rapporti fra i numeri, si tiene per buona la sola rilevazione del rapporto di 2 a 1 e si lascia questa eventuale ulteriore corrispondenza, come anche quella con la tridimensionalità, ad ulteriori analisi.

Conclusioni.

 a) Il Corano nomina i colori di quella che, sulla scorta della teoria dell'opponenza cromatica di Hering, è sinteticamente definibile come la nostra codifica neurale delle informazioni cromatiche. Oltre a questi, nomina esplicitamente solo il grigio, che può essere ricompreso nella coppia bianco-nero della teoria.

 b) Si possono individuare dei rapporti numerici fra le ricorrenze di questi colori che non solo rafforzano la corrispondenza con la teoria dell'opponenza cromatica, ma contemporaneamente trovano delle corrispondenze anche con:

 - la teoria tricromatica di Young-Helmholtz, ovvero la presenza nella retina di tre tipi di coni;

- la visione monocromatica, con riscontro nella presenza dei bastoncelli oltre ai coni; 

- il fatto che il processo visivo umano è caratterizzato da una visione binoculare.

 c) In seconda battuta, dopo aver visto ciò che si è visto, possiamo riconsiderare i passaggi allusivi sulle sfumature come concettualmente integrativi: quanto riscontrato appare come una rappresentazione schematica, per step, ma il prodotto è che il processo visivo umano copre uno spettro da una lunghezza d'onda di circa 380 nanometri a una di circa 780, senza scalini. L'ulteriore alludere del Corano alle sfumature di colore aumenta quindi la precisione delle corrispondenze, perché collima col fatto che nella realtà non percepiamo tanto i colori per come se n'è parlato, ovvero per come li abbiamo estratti dal testo coranico e messi a comparazione con la spiegazione teorica di fenomeni fisici³, quanto diverse gradazioni degli stessi.
 
 d) Queste rilevazioni non escludono che ci possano essere altre corrispondenze specifiche, e anzi suggeriscono che sarebbero opportune ulteriori analisi.

 Se si fosse trovato solo a) sarebbe stato possibile, per quanto improbabile, parlare di coincidenze, ma dopo b) si può scartare come pensiero tendente al magico il ritenere che sia tutto frutto di un caso evidentemente "intelligente". Ancor meno sono da prendere in considerazione le eventuali motivazioni di chi non volesse prendere in considerazione quanto visto, o volesse giustificarlo sulla base di vuoti della storiografia da colmare con ricostruzioni compatibili: non è noto che al tempo della redazione del Corano, il VII secolo, fosse conosciuta alcuna delle nozioni di cui si è trovata corrispondenza, se non forse quella intuitiva dell'inversa proporzionalità fra luminosità e buio. Si potrebbe invece congetturare che, così come ci è arrivato Hering partendo dal ragionamento, poteva arrivarci anche Maometto in meditazione, o chi per lui, pur senza esperimenti e conoscenze avanzate. Ma per certo sappiamo solo che prima del 1872 nessuno era arrivato a formalizzare la teoria dell'opponenza cromatica, né poco prima quella della tricromia. Quindi anche spiegazioni simili reggerebbero ben poco. Oltre alla potenza della meditazione, che per altro non metto in discussione, si potrebbe tirare fuori la solita speculazione fantarcheologica per cui, ad esempio, qualche sconosciuto gruppo di sapienti era in possesso di informazioni di qualche avanzata civiltà precedente. Ma anche qua non c'è alcuna prova tangibile a supporto. C'è poi la "spiegazione" islamica tradizionale, per cui si tratterebbe di un miracolo divino e chiusa la questione. Oppure quella di una fede in opposizione a quella islamica, per cui si tratterebbe di un qualcosa di diabolico e chiusa ugualmente la questione, ma in negativo.

 Non avendo noi a disposizione altre fonti e risorse attendibili, ci rimane la spiegazione del Corano stesso, questo enigmatico testo il cui ispiratore (ma non redattore) affermava di ricevere i suoi messaggi da informatori, nominalmente i malā'ika cioè gli angeli, provenienti da molto, molto lontano. Questa lontananza è ovviamente un eufemismo, perché nei messaggi gli informatori dichiarano di poter tranquillamente viaggiare 50'000 anni nello spazio (cfr. La Guida). Sarebbe assurdo crederci, e immagino lo sia per chiunque sentisse parlare per la prima volta di queste cose, ma per me sono semplicemente troppi gli OOPArt (Out Of Place Artifacts, anacronismi) incontrati in anni di analisi del testo coranico. Ho vagliato anche migliaia di false rilevazioni, e io stesso ne ho dovute scartare di mie dopo averci trovato delle falle metodologiche o concettuali (cosa che sono sempre pronto a fare) ma quelle effettive sono bastanti per porci l'interrogativo di quale sia la vera origine del Corano, inspiegabile per la storiografia ufficiale e solo in parte per quella islamica tradizionale, che almeno mette in conto l'intervento degli angeli. Quindi fra tutte le spiegazioni esposte, anche in questo caso ritengo la spiegazione fornita dal Corano, ovvero quella secondo cui - grattata via l'interpretazione tradizionale - c'è stato un cosiddetto esointervento, la paradossalmente meno assurda.

 Per ulteriori conferme non posso che rimandare ancora una volta al mio manuale.

 ¹ A quanto ho potuto appurare il grigio è quasi sempre omesso dalle casistiche sui colori del Corano, tanto tradizionali quanto moderne. Non è forse un caso, essendo intuitivamente il grigio una sorta di non-colore. Per coerenza, però, se si considerano colori il bianco e il nero bisogna considerare tale anche il grigio. Notare che la parola shayb non è l'unica che l'arabo classico conosce per nominarlo, ma è l'unica impiegata dal Corano.

 ² Nello specifico sono state riportate le due ricorrenze del nero nel versetto 3:106, e sono stati esclusi i vocaboli: بيض (uova) del versetto 37: 49, derivante dalla stessa radice di 'abyaḍ; سادت/سيد (signore/signori) dei versetti 3:39, 12:25, 33:67, derivanti dalla stessa radice di 'aswad; le varianti di حمار (asino) dei versetti 2:259, 16:8, 31:19, 62:5, 74:50, derivanti dalla stessa radice di 'aḥmar.

 ³ Su questo particolare punto, ovvero sul necessario utilizzo di concetti metafisici da parte della scienza, e più specificatamente sul rapporto fra scienza e Corano, consiglio la lettura di almeno questo paragrafo del mio manuale messo a disposizione come paperMetafisicità e scientificità del Corano.