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mercoledì 7 maggio 2025

Lo Spirito Santo nel Corano

 Il concetto di Spirito Santo (Rūḥ al-Qudus, in arabo روح القدس) è menzionato nel Corano quattro volte (2:87; 2:253; 5:110; 16:102). Da solo o in altre combinazioni, lo Spirito (Rūḥ) è citato in tutto ventuno volte, ma in questo articolo mi concentro primariamente sulle quattro in cui è appellato esplicitamente Santo. Di queste, solo una, il versetto 16:102, si riferisce alla rivelazione ricevuta da Maometto, cioè al Corano stesso. Il versetto è il seguente: 

Lo ha fatto scendere lo Spirito Santo, [proveniente] dal tuo Signore. In verità, per rinfrancare coloro che credono, e come guida e buona novella per coloro che si riappacificano.

 Le altre tre occorrenze sono in relazione a Gesù. Lo Spirito Santo qui è definito invariabilmente come ciò che conferma la sua missione profetica, e non è quindi identificabile direttamente con lui, né direttamente con Dio, ma - analogamente a quanto avviene con il Corano stesso - come un suo atto. Ciò serve anche a riportare ordine nella concezione di Dio, turbata, secondo il Corano, dalle speculazioni trinitarie.

 Nella Tradizione islamica è però prevalsa un'interpretazione materialista di tutto questo, e Rūḥ al-Qudus è stato identificato come l'interlocutore unico di Maometto, l'Arcangelo Gabriele*. In realtà, nel Corano manca questa associazione definitiva, o comunque esplicita. Tralasciando le congetture in merito plasmate dalla Sunna, su base esclusivamente coranica è legittimo ritenere che l'identificazione dello Spirito Santo con Gabriele sia, oltre che un'interpretazione affatto letterale, una riduzione, un'ipersemplificazione, e che Rūḥ al-Qudus abbia una più ampia gamma di significati, di cui quello concretizzatosi nell'operato degli angeli è solo uno dei tanti.

 Per capire quali e quanti altri possano essere, possiamo usare, invece che le raccolte aḥādīth che ci porterebbero sulla stessa strada percorsa dalla Tradizione, il metodo del tafsīr al-Qur'ān bi_l-Qur'ān, cioè l'interpretazione di elementi coranici attraverso altri elementi dello stesso Corano. Dobbiamo quindi andare a vedere che valenze ha altrove il concetto di Rūḥ. Fra i passi che lo riportano, ve ne sono due signicativi identici, 15:28-29 e 38:72, dove dell'Uomo si dice, nel simbolo della creazione di Adamo, che Dio gli ha soffiato dentro il proprio Spirito. Riporto il primo.

Il tuo Signore disse agli angeli: «Creerò l'Uomo con argilla secca, impastata di fango. Quando poi lo avrò plasmato, e avrò soffiato in lui del Mio spirito, prosternatevi al suo cospetto».

 In questo caso, Rūḥ rappresenta ciò che attiva l'essere umano, lo rende ciò che è, ed è identificabile come ciò che più lo distingue dalle altre forme di vita a noi note: il pensiero riflessivo, la coscienza di sé, per qualcuno l'anima. Qualunque cosa sia, nella logica coranica espressa in innumerevoli passaggi che non serve elencare, deve servire all'Uomo, oltre che per vivere, anche e soprattutto per riconoscere l'esistenza e la sovranità di Dio, ovvero per tornare a lui. Questo è descritto come l'estremo e unico vero successo dell'esistenza umana.

 Questa facoltà non è però illimitata, così come l'Uomo non è - nella teologia coranica - al centro del cosmo al posto o insieme a Dio, e a ricordarcelo c'è il passo racchiuso nei versetti 17:85-87. Qui lo Spirito non è definito Santo, ma è chiaro che i concetti sono, seppure non identici, collegati, anche perché si tira in ballo esplicitamente la Rivelazione.

[O Maometto] ti chiederanno a proposito dello Spirito. Rispondi: «Lo Spirito proviene dall'ordine del mio Signore e non vi è stato concesso se non poco sapere [a riguardo]. Se volessimo, potremmo ritirare ciò che ti abbiamo rivelato e non potresti trovare alcun [valido] oppositore contro di noi. Se non [fosse che vi spetta] una grazia da parte del tuo Signore, poiché, in verità, la Sua su di te è grande».

 Nel Corano, lo Spirito Santo è quindi correlato da una parte al processo con cui Dio si rivela, ovvero comunica con le sue creature, e dall'altra a concetti astratti come la coscienza, la ragione, la parte più nobile dell'essere umano ovvero l'anima. Parte che, come detto, per il Corano trova pieno compimento solo nel rivolgersi verso Dio. Dunque, le direzioni sono due, speculari: da Dio verso le creature e da queste, di ritorno, verso Dio. Le sfumature possibili sono anche altre, ma queste sono le principali.

 Tutto ciò non è estraneo alle altre religioni abramitiche, e a quella cristiana in particolare, cosa che il Corano non nasconde ma anzi esalta associando per ben tre volte Rūḥ al-Qudus a Gesù. È stata piuttosto la Tradizione, con una selezione nella vasta gamma di significati, ad averne preso le distanze con la preponderante sovrapposizione dello Spirito Santo con la figura di Gabriele. Questa non è da escludere, e anzi, nella veste di rappresentazione di tutto il processo comunicativo messo in opera dagli angeli, è sicuramente presente nel Corano. Ma si tratta solo di un fenomeno di quella che è, in definitiva, una dinamica più ampia e significativa, perché universale: la relazione diretta fra il Creatore e le sue creature, che è già definita santa nel momento in cui procede dal primo verso le seconde, e che - per logica intrinseca - può portare quest'ultime a santificarsi nel momento in cui, rispondendo alla chiamata, stabiliscono la connessione. 

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* Ciò è vero soprattutto per il sunnismo, mentre nello sciismo la definizione è più sfumata, e il consenso su come intendere il concetto è minore. Da segnalare poi che nel sunnismo, come spesso accade, la dimensione esoterica del sufismo permette interpretazioni alternative a quella ritenuta ortodossa, o comunque divenuta maggioritaria.

martedì 8 aprile 2025

دراسات شرقية والاستشراق _ Orientalistica e Orientalismo

 'Orientalistica' è un termine generico usato in Occidente per definire l’insieme di discipline rivolte allo studio delle civiltà del Medio Oriente, dell’Asia e in senso lato anche dell’Africa. In sintesi, lo studio di tutto ciò che fino alla scoperta delle Americhe era l’Altrove. Sempre meno utilizzato in questo senso generalista, è però un termine utile per inquadrare l’ottica con cui la civiltà occidentale, e la Cristianità che per lungo tempo con essa si è identificata, si è rapportata dal Medioevo fino all’Età Moderna con le culture altre. E il fatto che per lungo tempo l’Oriente conosciuto sia coinciso in Europa con il mondo arabo-islamico, rendendolo l’alterità per eccellenza, è la dimostrazione di come esso abbia giocato un ruolo chiave, tanto di cesura con l’Oriente Estremo quanto di ponte fra le varie parti del Vecchio Mondo.


 Infatti l’Islam, pur essendo inevitabilmente caratterizzato dalle sue origini nella Penisola Arabica, rigetta in via teorica di coincidere con un’istanza nazionalistica e si presenta anzi come sistema universale ed inclusivo già a partire dal Corano ( “A Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente, ovunque vi volgiate lì c’è il Suo volto”1) e da tendenze nella Tradizione (“Cercate la conoscenza fino in Cina” recita un famoso detto attribuito al profeta Maometto). Come detto, questa è teoria, perché già durante il califfato degli Omayyadi si manifestò da parte degli arabi un certo suprematismo, presto ridimensionato dalla dinastia che prese il comando della Ummah, quegli Abbasidi così inclini alla promozione della cultura persiana. Il suprematismo arabista si manifestò periodicamente, così come ne vennero fuori di altri (notabilmente quello persiano nell’area iranica e quello turco nell’Impero Ottomano), sempre però mitigati dalla vocazione universalista dell’Islam costituzionale, quello coranico. Nonostante le resistenze, ciò gli ha permesso di radunare, dalle steppe dell’Asia centrale alle coste dell’Africa meridionale, dalle sabbie del Sahel fino alle giungle della Nuova Guinea, le più disparate componenti etniche, e con esse le conoscenze delle quali queste erano già in possesso. Basti pensare che attraverso il mondo islamico sono giunti fino a noi dall’India il sistema decimale e i numeri ancora oggi definiti "arabi" (e con essi l’algebra, le equazioni, gli algoritmi, eccetera), dalla Cina la carta, la polvere da sparo e la bussola, dalla Persia le più avanzate conoscenze astrologiche, chimiche e mediche e persino, da quello che fu il mondo ellenistico, le versioni di numerosissimi trattati di filosofia greca che in Europa erano scomparsi dalla circolazione per secoli. Forse proprio per questo il mondo islamico ha finito per diventare nell’immaginario occidentale una sorta di contenitore per ogni esotismo. Non a caso nelle operazioni di controcultura, tanto a partire dal mondo islamico quanto internamente a quello occidentale, si sta sostituendo al concetto classico di 'orientalistica' la semantica connessa al termine 'orientalismo', che ha una connotazione negativa perché evoca la sfumatura eurocentrica, paternalistica e predatoria con cui l’Occidente ha spesso rappresentato l’Oriente2.


 Non si può tuttavia negare che, pur inevitabilmente condizionati da un’ottica inizialmente definibile come proto-orientalista, gli studi specifici hanno portato gradualmente ad un approccio meno grossolano nei confronti dell’Islam. La prima traduzione nota del Corano in lingue europee fu commissionata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile ad un apposito gruppo di monaci, fra i quali vi era un ebreo convertito al Cristianesimo che conosceva l’arabo. Il lavoro, in latino, fu completato nel XII secolo e, nonostante fosse parziale e con scopo unicamente apologetico, ebbe tale fortuna da costituire la base per la prima versione stampata del Corano, ad opera di Bibliander, pubblicata a Basilea nel 1543. In seguito giunse la più accurata traduzione, sempre in latino, ad opera del chierico Ludovico Marracci, che dette alle stampe il suo lavoro a Padova nel 1698, dopo quarant’anni di studio approfondito del Corano e di molte altre fonti arabe. Ai giorni nostri si è particolarmente distinto per lo studio dell’Islam il teologo ed orientalista francese Louis Massignon, i cui contributi alla riflessione cattolica sono stati tra le influenze che hanno portato ad approfondire quello che originariamente doveva essere il documento Decretum de Judaeis nella più estesa dichiarazione conciliare Nostra aetate, il cui terzo punto sancisce: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta [...] Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione” 3. Le fa eco il più recente Catechismo della Chiesa Cattolica, sintesi ufficiale della sua dottrina, che arriva ad affermare: “Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale”4.


 Certamente non sono neanche mancati, tra Oriente islamico e Occidente europeo, gli elementi di divisione, ma la lista di quelli che ne mettono in luce la vicinanza è, seppure meno appariscente, più lunga. E come non annoverarvi, accogliendo una ricostruzione che sembra sempre più verosimile, gli input che oggi ci arrivano da un’opera come La Divina Commedia? Detto brutalmente - anche se fatti non fummo ad esprimerci come bruti - l’opera fondativa della lingua italiana risulta costruita con la stessa cornice narrativa con cui, in generi letterari chiamati Isrā’ e Mi’rāj, è stato descritto il miracoloso trasporto in cielo di Maometto. Ciò è stato rilevato, o meglio riportato alla luce, da vari autori5, primo fra tutti il sacerdote spagnolo Miguel Asín Palacios, agli inizi del secolo scorso.

 La storia è ormai nota: per volere di Alfonso X il Savio, sovrano particolarmente arguto e interessato a carpire le conoscenze dei precedenti dominatori della Penisola Iberica, alcuni di questi racconti, che narrano più o meno le stesse vicende, furono tradotti dall’arabo in castigliano, latino e provenzale, e cominciarono così a circolare, con titoli come Liber Scalae Machometi (il "Libro della Scala"), in ristretti ambienti intellettuali dell’allora Cristianità. La cosa non sarebbe di particolare rilievo se non fosse che tutto ciò avvenne qualche decina d’anni prima che Dante Alighieri si apprestasse a vergare la sua Commedia, e che le analogie fra le due opere si sprecano.


 Innumerevoli autori si sono adoperati per negare questa possibilità, altri ancora vorrebbero sfruttarla per fare proselitismo, quanto alle scuole generalmente non se ne parla o lo si accenna di sfuggita. Quel che è certo è che, per Dante, rivelare una simile influenza sarebbe stato un grosso problema. Non dovrebbe sorprendere né scandalizzare, anche accettando questa ricostruzione, la rappresentazione di Maometto e del quarto califfo ’Alī nel modo in cui tutti i suoi conterranei si sarebbero aspettati: con ben poca accondiscendenza. Ma rileggendo attentamente le quartine dantesche c’è un dettaglio su cui non ci si sofferma mai abbastanza: la collocazione è fra gli scismatici. Non fra i pagani, né fra i bestemmiatori, né tra i falsari o gli eretici. La loro colpa sarebbe quindi quella di aver fatto due di una sola religione. Se Dante intendesse instillare nei suoi lettori il pensiero della comune natura fra Cristianesimo e Islam, o se si riferisse allo scisma interno all’Islam fra sunniti e sciiti, a sua volta interno al Cristianesimo, o se volesse intendere entrambe le cose e altro ancora, non è semplice dirlo. Così come rimane un enigma il posizionamento di pensatori islamici come Averroè ed Avicenna nel limbo, insieme ai grandi pensatori pagani che hanno preceduto la Cristianità e informato il nascente Umanesimo. Il chiamare in causa la figura di ’Alī, difficilmente giustificabile se non in relazione alla divisione fra sunniti e sciiti, tradisce conoscenze che al tempo erano riservate agli specialisti, e non si accorderebbe con l’eventuale ignoranza della natura prettamente islamica dei suddetti filosofi, per giunta quasi contemporanei di Dante. Detto questo - e tacendo di molto altro che ci sarebbe da dire - niente si dovrebbe togliere alla magnificenza della Divina Commedia, che semmai mostra un’ulteriore dimensione, definibile quasi come orientalista ante litteram. Proprio per celarla agli occhi di chi non avrebbe potuto capire, il cauto poeta avrebbe nascosto le figure di Maometto e del quarto califfo ’Alī sotto ’l velame de li versi strani. Come Dante, ha fatto, e continuerà a fare, chi si incarica di traslare nei canoni della propria cultura ciò che di più sottile è stato codificato in altre.


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1 Corano 2:115.

2 Ciò è dovuto in gran parte al successo delle tesi esposte dall’intellettuale arabo-statunitense Edward Said, nell’omonimo saggio pubblicato per la prima volta nel 1978.

3 Nostra aetate, 3, dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 1965.

4 Catechismo della Chiesa Cattolica, 841, Libreria Editrice Vaticana, 2017.

5 A. Celli, Dante e l’Oriente. Le fonti islamiche nella storiografia novecentesca, Carocci, 2013.


Estratto da L’alfabeto dell’Islam. Edizione riveduta e ampliata © Alessio Pinna 2025 - Tutti i diritti riservati / All rights reserved. Per contatti e autorizzazioni: studicomparativi@gmail.com


venerdì 24 gennaio 2025

La particolarità e il successo dello ḥanafismo

Fra le quattro scuole giuridiche sunnite (madhāhib), quella ḥanafita è considerabile come la più flessibile e dinamica, perché ha un grande respiro ermeneutico e favorisce particolarmente l'utilizzo dello istiḥsan, ovvero dell'opinione personale nei casi in cui non sia possibile prendere decisioni utilizzando letteralmente i testi sacri né attraverso i tradizionali metodi dell'analogia (qiyās) e del consenso (ijmā'). Poiché l'islam è olistico, e la scuola giuridica di riferimento si traduce anche in una certa impostazione nel vivere la religione, non è un caso che lo ḥanafismo sia largamente diffuso in Paesi non a maggioranza islamica, dove i musulmani devono adattarsi alle diverse circostanze che si trovano ad affrontare. Ma anche in Paesi a maggioranza islamica che, come la Turchia e l'Albania, fanno da ponte tra fideismo orientale e razionalismo occidentale. O ancora in un Paese come il Kazakistan, che conta la maggiore percentuale di musulmani senza denominazione (cioè che non si identificano in nessuna branca particolare) e di coranisti (ovvero di chi si attiene al Corano ma non si sente vincolato dalla Tradizione). Ma non è neanche un caso che, all'opposto, sia la scuola giuridica adottata da rigoristi del Subcontinente Indiano come i Deobandi e dai Talebani, che ai primi si ispirano. L'elemento comune fra tutte queste realtà, il motivo stesso dell'esistenza di così diverse declinazioni, è proprio la flessibilità e la dinamicità di cui si è detto, connaturate all'impostazione metodologica ḥanafita.

A questa dimostrazione della sua specificità, calata nel panorama odierno, se ne può aggiungere una strutturale a partire dalla Tradizione: rispetto agli altri "padri" della giurisprudenza islamica, l'iracheno Abu Hanifa, fondatore della scuola ḥanafita, fa storia a sé. Risulta infatti che tutti gli altri, da Malik ad Ibn Hanbal, criticarono aspramente il suo approccio, tanto da considerarlo in alcuni casi come eretico. Fra le accuse che gli furono mosse ci fu anche quella (forse tendenziosa) di aver ispirato idee sovversive, quando si ritrovò incarcerato dal califfo abbaside al-Mansur per il suo rifiuto di divenire giudice di Stato, al suo compagno di cella Anan ben David, ebreo. Costui fu a sua volta considerato come un eretico dalla maggior parte dei suoi correligionari, perché rifiutò l'autorità del Talmud, che è in pratica il corrispettivo ebraico della Sunna. E quanto propriamente agli aḥādīth, che sono l'elemento costituente della Sunna ovvero della Tradizione che la giurisprudenza incarna, si ritiene che la seguente sia la catena fondamentale di trasmissione, in cui sono presenti e collegati tutti gli altri protagonisti del tradizionismo islamico ma non il fondatore dello ḥanafismo, di cui si dovrà notare la significativa assenza.

1. Muslim e al-Bukhari: Muslim ibn al-Hajjaj (autore del Ṣaḥīḥ Muslim, ritenuta la seconda più importante collezione di aḥādīth) non era uno studente diretto di Muhammad al-Bukhari (autore del Ṣaḥīḥ al-Bukhārī, ritenuta la più importante collezione in assoluto), ma fu profondamente influenzato dal suo metodo nella raccolta delle testimonianze. Come lui fecero anche gli altri collezionatori, che da allora in poi seguirono tutti la strada tracciata da al-Bukhari.

2. al-Bukhari e Ibn Hanbal: al-Bukhari non era un discepolo diretto di Ahmad Ibn Hanbal, fondatore della scuola hanbalita, ma si ispirò alle sue conoscenze e fu influenzato dal suo metodo. al-Bukhari incontrò Ibn Hanbal durante i suoi viaggi di studio e discusse con lui di questioni relative agli aḥādīth.

3. Ibn Hanbal e al-Shafi'i: Ibn Hanbal fu uno dei più illustri studenti di al-Shafi'i, fondatore della scuola shafi'ita, e da lui apprese il metodo e i principi dell'Uṣūl al-Fiqh, fondamento della giurisprudenza islamica.

4. al-Shafi'i e Malik: al-Shafi'i studiò direttamente con Malik Ibn Anas, fondatore della scuola malikita. Fu profondamente influenzato dal metodo di Malik nella giurisprudenza e nella trasmissione degli aḥādīth.

5. Malik e Nafi', il liberto di Ibn Umar: Malik Ibn Anas apprese molti aḥādīth da Nafi', il liberto di Abdullah ibn Umar, uno dei trasmettitori ritenuti più affidabili nella cosiddetta "Catena d'Oro" (Isnād adh-Dhahabī).

6. Nafi' e Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj: Nafi' apprese la conoscenza e gli aḥādīth da Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj, un noto sapiente e trasmettitore ritenuto molto affidabile.

7. Al-A'raj e Abu Hurayrah: Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj studiò e trasmise molti aḥādīth dal celebre compagno del Profeta Abu Hurayrah.

8. Abu Hurayrah e Maometto: Abu Hurayrah era uno dei compagni che visse ai tempi del Profeta, e fu quello che trasmise il maggior numero di aḥādīth, ovvero quello a cui il maggior numero di aḥādīth è attribuito.

Maggior diffusione per Paese delle principali scuole giuridiche islamiche, con in verde quella ḥanafita. Anche nelle Americhe, non riportate, risulta come quella più presente.