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sabato 6 settembre 2025

Il Corano e il tema extraterrestri [V] - DISCLOSURE: I VERSETTI CORANICI CHE PARLANO DI VITA EXTRATERRESTRE

 

Il Corano ha ispirato un lungo periodo di avanguardie culturali e scoperte scientifiche. Sebbene a questo siano seguiti dei secoli non altrettanto floridi, dove sempre più ci si è volti indietro, con lo sguardo sulla Terra invece che al cielo, ora, studiandolo a mente aperta, potrebbe avere qualcosa di nuovo da dire. Qualcosa, fra le tante, proprio su una delle più grandi questioni della nostra epoca, in ambito scientifico come anche a livello di cultura popolare: la vita extraterrestre. Andiamo dunque a esaminare se e cosa si può trovare nel testo coranico sull’argomento.

Il secondo versetto della prima sura, il primo se non contassimo la basmala ovvero l’invariabile versetto introduttivo (Nel nome di Dio, Misericordioso, Misericorde), recita:

“Lode a Dio, Signore dei mondi”.

La parola che traduciamo con ‘mondi’ è ʿālamīn ed è proprio un plurale. Il Corano inizia così, in modo francamente abbastanza diretto. Certo, si può intendere ‘mondi’ anche in senso astratto, cioè come diverse realtà, o come diversi domini tassonomici, e questo è ciò che fanno quasi tutte le esegesi classiche. Ma niente vieta il significato più concreto: diversi mondi cioè diversi pianeti. Ora per noi questa è quasi una banalità, e rischiamo di creare una proiezione delle categorie del presente. Ma è difficile pensare che all’inizio della predicazione di Maometto, quando ancora il Profeta aveva pochi seguaci che credevano nei messaggi che riceveva dall’alto, questa rivelazione, con il suo significato più immediato, non sia risuonata come una stranezza da riportare al significato che poi ha prevalso.

D’altra parte però i musulmani devono essersi abituati in fretta alle stranezze, perché a Maometto giungevano rivelazioni come questa (versetto 65:12) che riportiamo ricordando che il numero 7 simboleggia una quantità di elementi indefinita cioè infinita.

“Dio è Colui che ha creato sette cieli e altrettante terre. È posto fra di essi un ordine, affinché sappiate che in verità Dio è onnipotente e abbraccia nella sua Scienza ogni cosa”.

Sette terre cioè sette mondi, infiniti come i "cieli". Si tratta di mondi abitati, come la Terra? Collegando il versetto 42:29 parrebbe proprio di sì:

“Fra i Suoi segni vi è la creazione dei cieli e della Terra e degli esseri viventi che vi ha sparso. Egli è in grado di riunirli quando lo vorrà”.

Per quanto riguarda gli esseri viventi sparsi sulla Terra non vi è problema di interpretazione. Per gli altri si potrebbe pensare agli uccelli, se non fosse che la parola ‘cieli’ è al plurale (samāwāt) e pertanto indica in modo inequivocabile il firmamento. Un firmamento che, a quanto pare da questo e altri passi che ribadiscono il concetto (si riportano come esempio il 19:93, il 13:15 e il 30:26), pullula di esseri viventi:

“Tutti coloro che stanno nei cieli e sulla Terra non si presentano che come servi dinanzi al Misericordioso”.

“A Dio si inchinano, spontaneamente o di malavoglia, quelli che sono nei cieli e [su] la Terra, e le loro ombre, all'inizio e alla fine del giorno”.

“Appartengono a Lui tutti coloro che stanno nei cieli e sulla Terra. Tutti Gli sono sottoposti”.

Di che tipo di esseri si sta parlando? Sembra che non si dica niente di preciso in merito, invece delle piccole quanto preziose indicazioni si possono attingere. Intanto il fatto che abbiano delle ombre (13:15) ci dice che non si intendono esseri “spirituali” bensì in carne e ossa. O in qualcos’altro, ma comunque con una certa consistenza materiale. Inoltre la parola resa nel versetto 42:29 come ‘esseri viventi’ è dābbatin, letteralmente ciò che si muove, che è presente anche nel versetto 24:45 e ci informa rappresentare tutte le creature generate a partire dall’acqua:

“Dall’acqua Dio ha creato tutti gli esseri viventi. Alcuni di loro strisciano sul ventre, altri camminano su due piedi, altri su quattro. Dio crea ciò che vuole. Dio è onnipotente”.

L’ipotesi attualmente più accreditata nella comunità scientifica è effettivamente che la vita, per svilupparsi, abbia bisogno dell’elemento acqua. Si parla dunque, se non in modo esclusivo almeno predominante, di creature organiche.

Dalle esegesi classiche tutto ciò non emerge chiaramente, non lo si mette in relazione, non avendo i dotti del passato contezza che quella letterale potrebbe essere un’interpretazione plausibile dei passi, oltre che la più semplice. Come detto sono però le interpretazioni di questi dotti, che operarono senza a disposizione i nostri strumenti, a fare ancora scuola. Ma noi ora, consci della teoria della pluralità dei mondi abitati, possiamo leggerlo senza neanche fare – ormai impostata questa ermeneutica - troppi sforzi d’interpretazione. Passando a un livello successivo, possiamo e dobbiamo allora chiederci se gli esseri viventi in altri pianeti siano dichiarati come senzienti, e la risposta anche qua è affermativa. Il versetto 85:1 ci informa che, come noi, sono in grado di costruire edifici:

“Per il cielo, pieno di torri”.

Il cielo qui è quello a noi visibile, dove ci viene chiesto di immaginare delle costruzioni. La parola tradotta come ‘torri’ è infatti burūj, e non è un caso che molte esegesi tradizionali abbiano sofisticato il testo, e semplificato la comprensione per i canoni del passato, intendendola simbolicamente come ‘volte celesti’, ‘costellazioni’. Ma burj (forma singolare di burūj) nell’arabo comune ha il significato semplice e chiaro di ‘torre’. Possiamo andare a un livello ancora successivo scandagliando il Corano alla ricerca di caratteristiche su queste costruzioni. I versetti 14-16 della sura 15, seppur come sempre in modo conciso, ci danno molte informazioni su cui riflettere:

“Anche se aprissimo loro una porta nel cielo ed essi vi potessero salire continuamente, direbbero: «I nostri occhi vedono miraggi, siamo stati senz’altro stregati». Abbiamo messo in cielo delle torri, le abbiamo abbellite agli occhi di chi guarda.”

Cercando nei vari commentari qualcosa su questo ricco ma oscuro passaggio, non si trovano altro che letture simboliche, col cielo (samā’) che diventa il Paradiso e le torri che - senza alcuna correlazione con quanto detto prima - diventano costellazioni o simili. Noi rimaniamo sul piano letterale, e materiale, e vediamo cosa ne esce fuori.

Innanzitutto rileviamo che si parla di costruzioni talmente lontane dai nostri canoni (soprattutto da quelli degli uomini del VII secolo) che risulterebbero "magiche", cioè incomprensibili. Quindi, volendo dar credito a ciò che c’è scritto, si starebbe parlando di un qualcosa di esistente, perché c’è qualcuno che lo guarda (viene impiegato il participio nāẓirīna che si attua nel presente) e non siamo noi. Rimanendo alla spiegazione più semplice, e più concreta secondo i canoni attuali, la reazione di stupore può essere letta principalmente in un modo: la provocherebbe la vista di un qualcosa di immensamente più avanzato rispetto a ciò che un uomo del VII secolo, ma forse anche del nostro, potrebbe anche solo immaginare. Poi, cosa molto interessante, si accenna a un portale che aprirebbe un collegamento verso questi luoghi. Quindi nell’Universo, oltre ad altri esseri intelligenti e a costruzioni, secondo il Corano dovrebbero esserci delle vie di comunicazione, se non addirittura di trasporto. E infatti il versetto 51:7, accompagnandosi a quello sulle torri, recita:

“Per il cielo, percorso da attraversamenti”.

Cosa avrebbe potuto intendere di questi attraversamenti (ḥubuk) un uomo del passato, fino a quello recente? Non è difficile capire perché si sia pensato a qualche sorta di binari in cui si muoverebbe ciò che vediamo nel cielo, soprattutto quello notturno. A mente sgombra, sappiamo cosa se ne potrebbe pensare adesso: muoversi nello spazio è possibile ma non è, stando a ostacoli come le fasce di Van Allen che circondano la Terra, cosa semplice. E non lo è neppure secondo il versetto 55:33, che avverte:

“O jinn e uomini riuniti, se potrete varcare i limiti dei cieli e della Terra, varcateli. Ma non lo farete se non per [il permesso di] un'autorità”.

I jinn sono una specifica categoria di esseri senzienti che il Corano afferma essere stati destituiti dal ruolo precedentemente ricoperto, assimilabile a quello degli angeli, ed esiliati sulla Terra. La loro natura, essendo argomento pertinente, verrà trattata nel dettaglio più avanti, parlando di chi o meglio di cosa materialmente sono, secondo il Corano, gli informatori di Maometto: gli angeli.

Sulla vita extraterrestre possiamo fermarci qui. Come evidenziato da questa breve disamina, a cui si sarebbero potuti aggiungere tanti altri esempi, una volta impostato un certo assetto mentale è possibile riscontrare e affermare senza timore di smentita quanto segue: il Corano - chiunque venga considerato come il suo autore o meglio il suo gruppo di contributori - dichiara esserci nello spazio degli esseri viventi, di cui sicuramente alcuni senzienti, e la capacità, per noi, di entrare in contatto con loro.

martedì 2 settembre 2025

Il Corano e il tema extraterrestri [IV] - LA CHIUSURA DELLA PORTA DELL’INTERPRETAZIONE

 Nel XIII secolo il mondo islamico, ormai sconfinato e decentralizzato, fu squassato dalle invasioni mongole, già dall'XI secolo si combattevano le Crociate e nel XV si sarebbe infine compiuta la Reconquista. È lecito ritenere che le conseguenze di tutti questi fattori ed eventi di natura geopolitica, insieme all’imposizione delle successioni dinastiche e alla fine delle cariche elettive, siano connesse all’esaurimento della spinta data dalla rivelazione coranica. Tuttavia ciò non basta a giustificarlo, anche perché la propulsione iniziale era stata data da ragioni di natura fondamentalmente spirituale, più che politica. Dobbiamo andare a vedere che trasformazioni generali sono avvenute a livello culturale.

Ci sono almeno tre fenomeni culturali significativi che si accompagnano a questi processi storici, che per parallelismi e concomitanza possono legittimamente ritenersi interconnessi alla decadenza che seguirà: l’imposizione della sterminata letteratura postcoranica, che è tanto ricca quanto contraddittoria e comunque favorente una prospettiva progressivamente sempre più passatista, da avanguardista che era in principio; la vittoria dell’approccio fideistico alla religione su quello speculativo e filosofico; soprattutto – per quanto riguarda questa analisi ma non solo – una codificazione che rappresenta un fenomeno insieme catalizzante e rappresentativo, ovvero la cosiddetta chiusura della porta dell’interpretazione del Corano.

Propriamente si parla di "chiusura della porta dello ijtihād" (termine che tecnicamente esprime lo "sforzo di interpretazione") in merito all’imporsi, a partire da circa il X secolo in avanti, della convinzione per cui l’interpretazione di base del Corano non dovesse procedere oltre quanto già elaborato dai commentatori più autorevoli. Il Corano è in effetti un testo enigmatico, che si presta a molte e diverse letture, alcune delle quali cominciavano ad essere destabilizzanti.

Teoricamente la chiusura si riferisce all’interpretazione del Corano a scopo giuridico, e solo nella branca sunnita, quella di gran lunga maggioritaria. Ma l’Islam non funziona per compartimenti stagni, e nella pratica la chiusura della porta dello ijtihād è un fenomeno che è coinciso storicamente con l’affievolirsi generalizzato dell’approccio razionalista e speculativo al Corano, e con l’imporsi (non solo nel sunnismo) di quello marcatamente fideista. Neanche nello sciismo duodecimano, che ha una concezione leggermente diversa di ijtihād, si può uscire fuori dai parametri fissati a partire dal suddetto periodo storico. Lo stesso vale anche per l’ibadismo e per tutte o quasi le altre branche minoritarie che si rifanno in qualche modo ad una tradizione. Le poche eccezioni, come l’ismailismo nizarita dove l’Aga Khan in carica è considerato l’interprete del Corano adatto ad ogni epoca, non cambiano il quadro e la dinamica generale, che quando troppo divergente viene considerata portare fuori dall’Islam (destino toccato al drusismo, all’alawismo e ad altre ramificazioni fra cui alcune di matrice sufi).

In pratica si assiste, dalla fine del nostro Medioevo fino all’Età Moderna, ad una sorta di cristallizzazione dottrinale che raggiunge il termine del processo verso il XV secolo. Non è un caso che gli imprescindibili commentari di esegesi (tafāsīr) siano quelli prodotti da autori che, da Ṭabarī ad al-Jalālayn passando per al-Ghazālī, al-Qurtubī, al-Bayḍāwī, Ibn Kathīr ed altri, operarono prima del XV secolo. Dopo, fino ai tempi più recenti, è quasi come se calasse il silenzio. O meglio, l’opposto dello ijtihād che è il taqlīd, l’imitazione. Imitazione ferrea, rigida, statica. Ciò ha permesso di preservare le letture elaborate nell’Epoca d’Oro, che i musulmani considerano generalmente come connaturate alla rivelazione coranica e dunque come atemporali.

A un esame attento, o comunque condotto utilizzando gli strumenti forniti da materie come l’epistemologia e l’ermeneutica moderne, ovvero fuori dall’ambito religioso, le letture tradizionali risultano invece per quel che sono: elaborazioni di un determinato periodo storico, strettamente legate – come del resto si potrebbe dire per tutti i testi sacri e non - ai contesti che le hanno prodotte. In questa analisi non saranno prese in considerazione, perché ciò che si vuole andare a vedere è proprio cosa può venire fuori riaprendo la suddetta porta.

Vero è che ci sono stati pensatori modernisti che, come l’egiziano Jawād at-Tanṭāwī, sono arrivati a bussare a quella porta, senza però provare ad aprirla per paura di doverla scardinare. All’opposto, antimodernisti come Sayyid Qutb, anch’egli egiziano, hanno guardato dalla serratura, e dopo aver intravisto qualcosa che, in un certo qual senso, ne giustifica la chiusura, hanno pensato che sarebbe ancora meglio fosse chiusa a doppia mandata. Quel che si cercherà di fare è di usare una chiave che, senza forzare il testo, ne permetta la lettura con gli occhi del presente, guardando al futuro come facevano coloro che furono testimoni della Rivelazione.

venerdì 22 agosto 2025

Il Corano e il tema extraterrestri [III] - ISLAM PRIMIGENIO E VITA EXTRATERRESTRE

Sorvolando momentaneamente sugli spunti derivanti direttamente dal testo coranico, che sono ciò che più interessano questa disamina e saranno esposti successivamente, diamo prima di tutto uno sguardo al contesto della Rivelazione: la compagnia del Profeta e gli immediati successori.

Un ḥadīth, ovvero un racconto, riportato in un commentario del Corano del XV secolo ritenuto autorevole nell’Islam sunnita, ad-Dur al-Manthūr di Jalāl as-Suyuti, contiene una significativa risposta del fidato compagno di Maometto Abdullāh Ibn ʿAbbās, allorquando fu interrogato sul senso di un versetto:

Se ve ne parlassi dettagliatamente, non ci credereste, lo rifiutereste. Ci sono sette terre, e ogni terra ha un Profeta come il vostro Profeta, un Adamo come Adamo, un Noè come Noè, un Abramo come Abramo e un Gesù come Gesù”.

Il numero sette è usato dal Corano, e conseguentemente in alcuni dottrine islamiche esoteriche, come simbolo di complessità, astrazione, indicibilità, quindi l’espressione ‘sette terre’ sta a significare ‘infinite terre’. Sembra di capire che Maometto e i suoi compagni più stretti sapessero qualcosa che per gli altri sarebbe stato incomprensibile, forse inaccettabile.

Nell’opera a carattere enciclopedico del X secolo al-Khiṣāl, autorevole presso lo sciismo, alla sesta guida sciita Jaʿfar aṣ-Ṣādiq, vissuto nell’VIII secolo, è attribuita questa affermazione:

Dio ha creato altri dodicimila mondi e ognuno di essi è più grande di sette cieli e sette terre messe assieme, e nessuno di chi ci vive penserebbe mai che Dio abbia creato altri mondi”.

Notevole, soprattutto se intendessimo anche qua i numeri espressi come usati per indicare grandezze incalcolabili, e incomunicabili.

Di Muḥammad al-Bāqir, predecessore di Jaʿfar, è stato registrato che avrebbe detto:

Forse voi pensate che Dio abbia creato solo questo mondo, e che non abbia creato altri esseri umani oltre a voi. Ebbene, io vi giuro su Dio che Egli ha creato migliaia e migliaia di mondi, e migliaia e migliaia di Umanità”.

Anche qua i numeri sembrano essere simbolici per quantità incalcolabili e verità inenarrabili. Quel che emerge è che, qualunque cosa sapessero i più prossimi al Profeta, e i loro successori, non potevano comunicarla apertamente, o comunque avevano ragione a ritenere che non sarebbero stati creduti. Non possiamo neanche sapere esattamente come l’abbiano inteso e/o come gli sia stato comunicato, perché la loro mentalità era comunque quella di uomini della loro epoca. Sta di fatto che queste affermazioni risultano avanguardistiche sia rispetto al tempo in cui sono state formulate che a quello in cui sono state documentate.

Tutto ciò è connesso direttamente alla rivelazione coranica, i cui spunti in merito devono essere considerati, data la precedenza della fissazione nel canone coranico e l’ineguagliabile livello di affidabilità con cui è giunto ai giorni nostri, come la fonte primaria a cui fare riferimento.


© 2025 - Estratto dalla versione rieditata di uno scritto già apparso sulla rivista XTimes n.191 del Settembre 2024 (X Publishing, pp.26-35) col titolo “Il Corano E Gli Extraterrestri”.

domenica 17 agosto 2025

Il Corano e il tema extraterrestri [II] - LA RIVELAZIONE CORANICA

Cominciamo da ciò su cui la storiografia contemporanea è abbastanza concorde, integrandolo con le fonti prettamente islamiche a disposizione.

Maometto (Muḥammad ibn ʿAbd Allāh) era un carovaniere della potente tribù dei Quraysh, nato a La Mecca intorno al 570 d.C. Rimasto orfano in tenera età, non visse nell’agiatezza fin quando non conobbe e sposò la ricca mercante Khadīja, più grande di lui di diversi anni (e fino al 619, anno del decesso, sua unica moglie). Libero da impegni incombenti, ebbe allora modo di dedicarsi alla spiritualità. Secondo le fonti islamiche nel 610, durante uno dei suoi ritiri in meditazione in una grotta del monte Ḥirā’ nei pressi de La Mecca, ricevette dall’arcangelo Gabriele la prima di una futura serie di rivelazioni.

Sulle circostanze di questa prima rivelazione, come su quelle successive, il Corano è estremamente criptico. Per ricostruirle, pur sapendo che non sono da considerarsi in sé fonti storiograficamente attendibili, è utile dare uno sguardo ai più importanti resoconti extracoranici: le raccolte di aḥādīth (plurale della parola ḥadīth), ovvero le narrazioni relative al Profeta e alla Rivelazione fatte dai suoi compagni e dagli immediati successori. Non c’è consenso unanime sulla validità di ogni specifico ḥadīth, che può variare a seconda della raccolta, della branca di appartenenza e della scuola interpretativa di riferimento.

La raccolta più autorevole in assoluto è quella prodotta nel IX secolo dal persiano al-Bukhārī. In essa è riportato che la futura moglie di Maometto ʿĀ’isha bint Abī Bakr avrebbe appreso dal Profeta che la prima rivelazione avvenne in questo modo:

[Maometto] prese amore per la solitudine. Si isolava in una grotta sul monte Ḥirā’, e vi si dedicava alla devozione, cioè all’adorazione, per molte notti, prima di tornare in famiglia. Perciò si riforniva di provviste, poi tornava da Khadīja e di nuovo si riforniva, finché giunse la Verità. Mentre stava nella grotta di Ḥirā’ si presentò a lui l’angelo e gli disse: «Recita!». Egli raccontò: "Gli dissi: «Non so recitare!». Allora mi afferrò e mi strinse finché ripresi le forze, poi mi lasciò e disse: «Recita!». Risposi: «Non so recitare!». Mi afferrò e mi strinse per la seconda volta, finché ripresi le forze, poi mi lasciò e disse: «Recita, nel nome del tuo Signore, che ha creato. Ha creato l’Uomo da un grumo di sangue! Recita! Perché il tuo Signore è il più generoso»". Dopo questo, l’Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - tornò a casa col cuore tremante, si presentò a Khadīja bint Khuwaylid, e disse: «Copritemi, copritemi». Lo avvolsero in un mantello finché lo spavento non lo lasciò; parlò allora a Khadīja informandola dell’accaduto”.

Khadīja, l’amico e futuro primo califfo Abū Bakr e il cugino e futuro quarto califfo ʿAlī furono i primi a credere a Maometto. Dopo questo primo contatto passarono ben tre anni senza ulteriori comunicazioni. Questo periodo è chiamato Fatra, e pare che Maometto lo passò pregando e riflettendo sull’accaduto.

Non sappiamo perché, ma dopo tre anni le rivelazioni ricominciarono, e non si fermarono più. Le testimonianze in merito alle circostanze in cui Maometto riceveva questi messaggi sono molto più vaghe rispetto al resoconto della prima ricezione, e contraddittorie fra di loro. La stessa tradizione islamica, generalmente ostile all’indeterminatezza, non si interessa di premiarne una piuttosto che un’altra, pur essendo questo un punto focale. al-Bukhārī ne riporta almeno quattro diverse, sempre tramite attribuzione ad ʿĀ’isha:

Disse ʿĀ’isha, madre dei credenti, che al-Ḥārith ibn Hishām interrogò l’Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - così: "Dimmi, Inviato di Dio, in che modo ti giunge la rivelazione? L’Inviato di Dio rispose: «Talvolta viene simile al suono di un campanello, e questo produce l’effetto più forte su di me. Poi si stacca da me, ma resta impresso nella mia memoria quel che ha detto. Altre volte l’angelo mi si presenta come un uomo e mi parla, e ricordo quel che dice»”.

Disse ʿĀ’isha: "Ho veduto, in una giornata di gran freddo, scendere su di lui la rivelazione e poi staccarsi da lui; la sua faccia allora grondava sudore"”.

Narrò ʿĀ’isha: "La rivelazione si manifestò all’Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - con una buona visione nel sonno; tutte le visioni che vedeva gli giungevano simili al chiarore dell’alba”.

Abbiamo quindi queste versioni della modalità di comunicazione fra Gabriele e Maometto: tramite "voci nella testa", tramite colloquio diretto con una figura umana o umanoide, tramite ispirazione simile al fuoco dello Spirito Santo, e tramite visioni nel sonno. A queste bisogna aggiungere il colloquio con una figura sovrannaturale che è l’unica riportata nel Corano, nei versetti 2-10 della sura 53:

Il vostro compagno non è fuorviato, non è in errore. Non parla in preda a un suo delirio, la sua è rivelazione rivelata. Chi gliel’ha rivelata è potente, forte, pieno d’energia. Si librava nella parte più alta dell’orizzonte, poi si avvicinò e rimase sospeso a meno di due tiri d’arco. E rivelò al suo servitore ciò che rivelò”.

Maometto, quindi, diceva di comunicare con qualcuno o qualcosa di sovrumano, capace di librarsi in aria e proveniente da lontano. Molto lontano. Quanto esattamente? Lo suggerisce un altro versetto, il quarto della sura 70:

Gli angeli e lo Spirito ascendono a Lui [Dio] in un giorno la cui durata è di cinquantamila anni”.

Si sta in pratica dicendo che, dato un tale tempo di percorrenza, fra l’altro presentato come minimo, gli angeli (i malā’ika) possono evidentemente viaggiare molto, molto in profondità nel cielo a noi visibile. Ed è interessante anche la relativizzazione: quello che per loro è come un giorno di percorrenza, noi lo conteremmo come cinquantamila dei nostri anni. Lunari, dato che il calendario islamico usa le fasi del nostro satellite. Per essere stato formulato nel VII secolo, è un concetto molto particolare, per non dire altro. Inoltre, anche empiricamente, si sta suggerendo che nel cielo stellato c’è una distanza abnorme rispetto a quella immaginabile da un uomo del VII secolo.

Fra l’altro, due versetti dopo, la distanza è dichiarata relativa anche a livello spaziale:

Loro lo considerano come fosse lontano, mentre noi lo vediamo vicino”.

Ci sarebbe da interrogarsi su quella prima persona plurale che spesso compare nel Corano come soggetto. In generale può essere intesa in due modi: plurale maiestatico, quando ad essere il soggetto è Dio, e plurale semplice, quando il soggetto è una moltitudine. A volte i cambi sono talmente repentini da susseguirsi nel giro di poche parole, e spesso la comprensione del modo giusto da intendere non è immediata. La scrittura araba non aiuta, non contemplando una grafia maiuscola che torna invece utile quando si vuole far capire con chiarezza che trattasi di plurale maiestatico. In questo e moltissimi altri casi l’esegesi tradizionale islamica lo intende come maiestatico, non dissimilmente da come fanno spesso quelle tradizionali giudaica e cristiana con la Bibbia. Con una nuova rilettura, sganciata dalle esegesi classiche, si può invece intenderlo come semplice, e il soggetto sono quindi gli angeli. Sarebbero loro a dichiarare di poter tranquillamente percorrere distanze improponibili per gli uomini. Per quelli di allora come per quelli di oggi.

Su questo possiamo fermarci qui: al momento non abbiamo elementi per stabilire quale delle versioni sulle circostanze della Rivelazione sia più veritiera, se non lo sia nessuna di esse o se lo siano tutte. L’unica cosa certa stabilita dalla storiografia moderna è che Maometto è una figura realmente esistita, che i suoi seguaci trascrivevano i messaggi che, a quanto visto, diceva di ricevere da dei viaggiatori spaziali, e che le sue dichiarazioni furono raccolte dopo la sua morte nel 632, in un processo che si concluse nel VII secolo con la costituzione di un testo composto da 114 sure (considerabili grossolanamente come dei capitoli, pur non avendo il Corano una scrittura lineare ma ipertestuale). A questo prototipo sono riconducibili tutte le versioni del testo coranico che, con variazioni minime, sono giunte ai nostri giorni. Ciò, fra l’altro, costituisce un unicum fra i testi antichi di questa diffusione, sacri e non solo.

mercoledì 13 agosto 2025

Il Corano e il tema extraterrestri [I] - NUOVE PROSPETTIVE ERMENEUTICHE ED ESEGETICHE

Negli ultimi decenni, lo sa bene chi si interessa di argomenti borderline, va affermandosi un nuovo campo di studi sulle fonti antiche che combina il letteralismo, secondo cui ciò di cui trattano è realmente accaduto anche se di primo acchito appare irrealistico, con l’immaginario del mondo moderno. Questo fenomeno, che distrattamente potrebbe considerarsi come universale, diffuso a tutte le latitudini, è in realtà connaturato alle società che lo stanno producendo, ovvero quelle del mondo occidentale, e legato a questo preciso momento storico. L’esito più rilevante è la rilettura con nuove chiavi d’interpretazione dei miti di fondazione e dei testi sacri, dalla Bibbia alle fonti delle religioni precristiane passando per gli apocrifi della tradizione abramitica.

I ricercatori di confine occidentali, che non si sono fatti remore ad estendere le loro ricerche alle fonti di altre civiltà come quella indiana, sembrano però non essersi ancora interessati a quelle del mondo islamico, con delle rare eccezioni da me recensite nel manuale Corano, tecnologia e vita extraterrestre. Il perché non è difficile da comprendere: si tratta di un argomento impegnativo, ostico, pericoloso sotto vari aspetti. Se da un certo punto di vista questa è una mancanza, dall’altro può essere però un’opportunità, perché ci permette di applicare un metodo simile ma senza ripeterne il più macroscopico degli errori d’impostazione: la proiezione sul passato dell’immaginario del presente.

La chiave di lettura da utilizzare deve quindi tenere conto tanto delle circostanze della Rivelazione quanto del punto d’osservazione, il qui ed ora. Evitando che il secondo ridisegni le prime a sua immagine e somiglianza, e cercando piuttosto di rintracciare nel Corano dei significati plausibili tanto rispetto al passato quanto al presente e al futuro, si potrebbe trovare qualcosa di veramente rilevante.


© 2025 - Estratto dalla versione rieditata di uno scritto già apparso sulla rivista XTimes n.191 del Settembre 2024 (X Publishing, pp.26-35) col titolo “Il Corano E Gli Extraterrestri”.

domenica 3 agosto 2025

Commento al versetto 3 della sura 12 del Corano, chiamata dalla tradizione "di Giuseppe"

Mi sono sempre chiesto che senso avesse appellare la storia di Giuseppe (Yūsuf) come “la migliore” del Corano, essendovi raccontate altre di pari livello. Lo fanno vari commentari classici in relazione al versetto 3 della sura 12, e lo ripetono le traduzioni nostrane. Poi ho capito che c’è un’altra - e per me più sensata - lettura del passo, che con i versetti precedenti (12:1-2) costituisce quella che di primo acchito parrebbe una breve introduzione alla suddetta storia, ma tale non è: si tratta del vero tema della sura, mentre il resto ne è una spiegazione. Non si sta quindi dicendo che il racconto che compare di seguito è il migliore, come lo intendono tanti commentatori del passato e del presente, ma che il Corano contiene il meglio (أحسن) delle storie precedenti (القصص).

Entrambe le traduzioni/interpretazioni sono grammaticalmente valide e concettualmente possibili, ma questa che sto fornendo mi pare più coerente col resto del Corano, e col resto della sura: dopo aver affermato la realtà del Corano come riassunto e sigillo della Rivelazione (cosa che - fra l’altro - per chi crede nel Corano dovrebbe essere inconfutabile) si procede a raccontare una di queste storie come esemplificazione. Quella di Giuseppe, per l’appunto.

La traduzione/interpretazione che ritengo più corretta è quindi la seguente:

Noi abbiamo scelto per te il meglio dei racconti [precedenti], con cui ti abbiamo ispirato questa narrazione, sebbene tu prima fossi fra coloro che ignorano [queste cose].

Notare che la sura, dopo aver raccontato la suddetta storia (12:4-101), riprende così (12:102):

Questa è [una] delle notizie dall’ignoto che ti riveliamo, perché non fosti fra coloro che si riunivano per tramare i loro piani.

E dopo aver continuato sullo stesso tenore (12:105-110) si chiude in questo modo (12:111):

Nelle storie [dei personaggi del passato] c’è una lezione per coloro che hanno intelletto. Questa non è certo una narrazione campata per aria, ma la conferma di ciò che la precede, una spiegazione dettagliata di ogni cosa, una guida e una misericordia per chi crede.

Tutto, dall’introduzione alla conclusione della sura, verte dunque sul fatto che il Corano contiene la summa delle rivelazioni cioè delle storie precedenti, frammentate e mescolate nel suo testo (che per questo è un ipertesto). Come saggio viene fornita quella di Giuseppe, un raro caso - ma non unico, come si legge da varie parti - in cui lo si fa per intero (altre storie autoconclusive sono quelle di al-Khiḍr, il maestro di Mosè, Dhū_l-Qarnayn, il sovrano bicorne, al-Kahf, i compagni della caverna).

Per concludere riporto due citazioni da altri due passi del Corano. La prima è dal versetto 3:84: vi si afferma che non bisogna fare alcuna distinzione, ovvero alcuna preferenza, fra i profeti, e quindi per estensione non bisognerebbe farla neanche fra le loro storie. Se rapportato alla sura 12, sembrerebbe incoerente con la definizione della storia di Giuseppe come “la migliore”. La seconda è dal versetto 39:23, dove l’espressione “il meglio della tradizione profetica” (أحسن الحديث), conforme a quanto fin qui esposto, è usata inequivocabilmente in riferimento all’intero Corano.

والله أعلم

mercoledì 7 maggio 2025

Lo Spirito Santo nel Corano

 Il concetto di Spirito Santo (Rūḥ al-Qudus, in arabo روح القدس) è menzionato nel Corano quattro volte (2:87; 2:253; 5:110; 16:102). Da solo o in altre combinazioni, lo Spirito (Rūḥ) è citato in tutto ventuno volte, ma in questo articolo mi concentro primariamente sulle quattro in cui è appellato esplicitamente Santo. Di queste, solo una, il versetto 16:102, si riferisce alla rivelazione ricevuta da Maometto, cioè al Corano stesso. Il versetto è il seguente: 

Lo ha fatto scendere lo Spirito Santo, [proveniente] dal tuo Signore. In verità, per rinfrancare coloro che credono, e come guida e buona novella per coloro che si riappacificano.

 Le altre tre occorrenze sono in relazione a Gesù. Lo Spirito Santo qui è definito invariabilmente come ciò che conferma la sua missione profetica, e non è quindi identificabile direttamente con lui, né direttamente con Dio, ma - analogamente a quanto avviene con il Corano stesso - come un suo atto. Ciò serve anche a riportare ordine nella concezione di Dio, turbata, secondo il Corano, dalle speculazioni trinitarie.

 Nella Tradizione islamica è però prevalsa un'interpretazione materialista di tutto questo, e Rūḥ al-Qudus è stato identificato come l'interlocutore unico di Maometto, l'Arcangelo Gabriele*. In realtà, nel Corano manca questa associazione definitiva, o comunque esplicita. Tralasciando le congetture in merito plasmate dalla Sunna, su base esclusivamente coranica è legittimo ritenere che l'identificazione dello Spirito Santo con Gabriele sia, oltre che un'interpretazione affatto letterale, una riduzione, un'ipersemplificazione, e che Rūḥ al-Qudus abbia una più ampia gamma di significati, di cui quello concretizzatosi nell'operato degli angeli è solo uno dei tanti.

 Per capire quali e quanti altri possano essere, possiamo usare, invece che le raccolte aḥādīth che ci porterebbero sulla stessa strada percorsa dalla Tradizione, il metodo del tafsīr al-Qur'ān bi_l-Qur'ān, cioè l'interpretazione di elementi coranici attraverso altri elementi dello stesso Corano. Dobbiamo quindi andare a vedere che valenze ha altrove il concetto di Rūḥ. Fra i passi che lo riportano, ve ne sono due signicativi identici, 15:28-29 e 38:72, dove dell'Uomo si dice, nel simbolo della creazione di Adamo, che Dio gli ha soffiato dentro il proprio Spirito. Riporto il primo.

Il tuo Signore disse agli angeli: «Creerò l'Uomo con argilla secca, impastata di fango. Quando poi lo avrò plasmato, e avrò soffiato in lui del Mio spirito, prosternatevi al suo cospetto».

 In questo caso, Rūḥ rappresenta ciò che attiva l'essere umano, lo rende ciò che è, ed è identificabile come ciò che più lo distingue dalle altre forme di vita a noi note: il pensiero riflessivo, la coscienza di sé, per qualcuno l'anima. Qualunque cosa sia, nella logica coranica espressa in innumerevoli passaggi che non serve elencare, deve servire all'Uomo, oltre che per vivere, anche e soprattutto per riconoscere l'esistenza e la sovranità di Dio, ovvero per tornare a lui. Questo è descritto come l'estremo e unico vero successo dell'esistenza umana.

 Questa facoltà non è però illimitata, così come l'Uomo non è - nella teologia coranica - al centro del cosmo al posto o insieme a Dio, e a ricordarcelo c'è il passo racchiuso nei versetti 17:85-87. Qui lo Spirito non è definito Santo, ma è chiaro che i concetti sono, seppure non identici, collegati, anche perché si tira in ballo esplicitamente la Rivelazione.

[O Maometto] ti chiederanno a proposito dello Spirito. Rispondi: «Lo Spirito proviene dall'ordine del mio Signore e non vi è stato concesso se non poco sapere [a riguardo]. Se volessimo, potremmo ritirare ciò che ti abbiamo rivelato e non potresti trovare alcun [valido] oppositore contro di noi. Se non [fosse che vi spetta] una grazia da parte del tuo Signore, poiché, in verità, la Sua su di te è grande».

 Nel Corano, lo Spirito Santo è quindi correlato da una parte al processo con cui Dio si rivela, ovvero comunica con le sue creature, e dall'altra a concetti astratti come la coscienza, la ragione, la parte più nobile dell'essere umano ovvero l'anima. Parte che, come detto, per il Corano trova pieno compimento solo nel rivolgersi verso Dio. Dunque, le direzioni sono due, speculari: da Dio verso le creature e da queste, di ritorno, verso Dio. Le sfumature possibili sono anche altre, ma queste sono le principali.

 Tutto ciò non è estraneo alle altre religioni abramitiche, e a quella cristiana in particolare, cosa che il Corano non nasconde ma anzi esalta associando per ben tre volte Rūḥ al-Qudus a Gesù. È stata piuttosto la Tradizione, con una selezione nella vasta gamma di significati, ad averne preso le distanze con la preponderante sovrapposizione dello Spirito Santo con la figura di Gabriele. Questa non è da escludere, e anzi, nella veste di rappresentazione di tutto il processo comunicativo messo in opera dagli angeli, è sicuramente presente nel Corano. Ma si tratta solo di un fenomeno di quella che è, in definitiva, una dinamica più ampia e significativa, perché universale: la relazione diretta fra il Creatore e le sue creature, che è già definita santa nel momento in cui procede dal primo verso le seconde, e che - per logica intrinseca - può portare quest'ultime a santificarsi nel momento in cui, rispondendo alla chiamata, stabiliscono la connessione. 

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* Ciò è vero soprattutto per il sunnismo, mentre nello sciismo la definizione è più sfumata, e il consenso su come intendere il concetto è minore. Da segnalare poi che nel sunnismo, come spesso accade, la dimensione esoterica del sufismo permette interpretazioni alternative a quella ritenuta ortodossa, o comunque divenuta maggioritaria.

martedì 8 aprile 2025

دراسات شرقية والاستشراق _ Orientalistica e Orientalismo

 'Orientalistica' è un termine generico usato in Occidente per definire l’insieme di discipline rivolte allo studio delle civiltà del Medio Oriente, dell’Asia e in senso lato anche dell’Africa. In sintesi, lo studio di tutto ciò che fino alla scoperta delle Americhe era l’Altrove. Sempre meno utilizzato in questo senso generalista, è però un termine utile per inquadrare l’ottica con cui la civiltà occidentale, e la Cristianità che per lungo tempo con essa si è identificata, si è rapportata dal Medioevo fino all’Età Moderna con le culture altre. E il fatto che per lungo tempo l’Oriente conosciuto sia coinciso in Europa con il mondo arabo-islamico, rendendolo l’alterità per eccellenza, è la dimostrazione di come esso abbia giocato un ruolo chiave, tanto di cesura con l’Oriente Estremo quanto di ponte fra le varie parti del Vecchio Mondo.


 Infatti l’Islam, pur essendo inevitabilmente caratterizzato dalle sue origini nella Penisola Arabica, rigetta in via teorica di coincidere con un’istanza nazionalistica e si presenta anzi come sistema universale ed inclusivo già a partire dal Corano ( “A Dio appartengono l’Oriente e l’Occidente, ovunque vi volgiate lì c’è il Suo volto”1) e da tendenze nella Tradizione (“Cercate la conoscenza fino in Cina” recita un famoso detto attribuito al profeta Maometto). Come detto, questa è teoria, perché già durante il califfato degli Omayyadi si manifestò da parte degli arabi un certo suprematismo, presto ridimensionato dalla dinastia che prese il comando della Ummah, quegli Abbasidi così inclini alla promozione della cultura persiana. Il suprematismo arabista si manifestò periodicamente, così come ne vennero fuori di altri (notabilmente quello persiano nell’area iranica e quello turco nell’Impero Ottomano), sempre però mitigati dalla vocazione universalista dell’Islam costituzionale, quello coranico. Nonostante le resistenze, ciò gli ha permesso di radunare, dalle steppe dell’Asia centrale alle coste dell’Africa meridionale, dalle sabbie del Sahel fino alle giungle della Nuova Guinea, le più disparate componenti etniche, e con esse le conoscenze delle quali queste erano già in possesso. Basti pensare che attraverso il mondo islamico sono giunti fino a noi dall’India il sistema decimale e i numeri ancora oggi definiti "arabi" (e con essi l’algebra, le equazioni, gli algoritmi, eccetera), dalla Cina la carta, la polvere da sparo e la bussola, dalla Persia le più avanzate conoscenze astrologiche, chimiche e mediche e persino, da quello che fu il mondo ellenistico, le versioni di numerosissimi trattati di filosofia greca che in Europa erano scomparsi dalla circolazione per secoli. Forse proprio per questo il mondo islamico ha finito per diventare nell’immaginario occidentale una sorta di contenitore per ogni esotismo. Non a caso nelle operazioni di controcultura, tanto a partire dal mondo islamico quanto internamente a quello occidentale, si sta sostituendo al concetto classico di 'orientalistica' la semantica connessa al termine 'orientalismo', che ha una connotazione negativa perché evoca la sfumatura eurocentrica, paternalistica e predatoria con cui l’Occidente ha spesso rappresentato l’Oriente2.


 Non si può tuttavia negare che, pur inevitabilmente condizionati da un’ottica inizialmente definibile come proto-orientalista, gli studi specifici hanno portato gradualmente ad un approccio meno grossolano nei confronti dell’Islam. La prima traduzione nota del Corano in lingue europee fu commissionata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile ad un apposito gruppo di monaci, fra i quali vi era un ebreo convertito al Cristianesimo che conosceva l’arabo. Il lavoro, in latino, fu completato nel XII secolo e, nonostante fosse parziale e con scopo unicamente apologetico, ebbe tale fortuna da costituire la base per la prima versione stampata del Corano, ad opera di Bibliander, pubblicata a Basilea nel 1543. In seguito giunse la più accurata traduzione, sempre in latino, ad opera del chierico Ludovico Marracci, che dette alle stampe il suo lavoro a Padova nel 1698, dopo quarant’anni di studio approfondito del Corano e di molte altre fonti arabe. Ai giorni nostri si è particolarmente distinto per lo studio dell’Islam il teologo ed orientalista francese Louis Massignon, i cui contributi alla riflessione cattolica sono stati tra le influenze che hanno portato ad approfondire quello che originariamente doveva essere il documento Decretum de Judaeis nella più estesa dichiarazione conciliare Nostra aetate, il cui terzo punto sancisce: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta [...] Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione” 3. Le fa eco il più recente Catechismo della Chiesa Cattolica, sintesi ufficiale della sua dottrina, che arriva ad affermare: “Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale”4.


 Certamente non sono neanche mancati, tra Oriente islamico e Occidente europeo, gli elementi di divisione, ma la lista di quelli che ne mettono in luce la vicinanza è, seppure meno appariscente, più lunga. E come non annoverarvi, accogliendo una ricostruzione che sembra sempre più verosimile, gli input che oggi ci arrivano da un’opera come La Divina Commedia? Detto brutalmente - anche se fatti non fummo ad esprimerci come bruti - l’opera fondativa della lingua italiana risulta costruita con la stessa cornice narrativa con cui, in generi letterari chiamati Isrā’ e Mi’rāj, è stato descritto il miracoloso trasporto in cielo di Maometto. Ciò è stato rilevato, o meglio riportato alla luce, da vari autori5, primo fra tutti il sacerdote spagnolo Miguel Asín Palacios, agli inizi del secolo scorso.

 La storia è ormai nota: per volere di Alfonso X il Savio, sovrano particolarmente arguto e interessato a carpire le conoscenze dei precedenti dominatori della Penisola Iberica, alcuni di questi racconti, che narrano più o meno le stesse vicende, furono tradotti dall’arabo in castigliano, latino e provenzale, e cominciarono così a circolare, con titoli come Liber Scalae Machometi (il "Libro della Scala"), in ristretti ambienti intellettuali dell’allora Cristianità. La cosa non sarebbe di particolare rilievo se non fosse che tutto ciò avvenne qualche decina d’anni prima che Dante Alighieri si apprestasse a vergare la sua Commedia, e che le analogie fra le due opere si sprecano.


 Innumerevoli autori si sono adoperati per negare questa possibilità, altri ancora vorrebbero sfruttarla per fare proselitismo, quanto alle scuole generalmente non se ne parla o lo si accenna di sfuggita. Quel che è certo è che, per Dante, rivelare una simile influenza sarebbe stato un grosso problema. Non dovrebbe sorprendere né scandalizzare, anche accettando questa ricostruzione, la rappresentazione di Maometto e del quarto califfo ’Alī nel modo in cui tutti i suoi conterranei si sarebbero aspettati: con ben poca accondiscendenza. Ma rileggendo attentamente le quartine dantesche c’è un dettaglio su cui non ci si sofferma mai abbastanza: la collocazione è fra gli scismatici. Non fra i pagani, né fra i bestemmiatori, né tra i falsari o gli eretici. La loro colpa sarebbe quindi quella di aver fatto due di una sola religione. Se Dante intendesse instillare nei suoi lettori il pensiero della comune natura fra Cristianesimo e Islam, o se si riferisse allo scisma interno all’Islam fra sunniti e sciiti, a sua volta interno al Cristianesimo, o se volesse intendere entrambe le cose e altro ancora, non è semplice dirlo. Così come rimane un enigma il posizionamento di pensatori islamici come Averroè ed Avicenna nel limbo, insieme ai grandi pensatori pagani che hanno preceduto la Cristianità e informato il nascente Umanesimo. Il chiamare in causa la figura di ’Alī, difficilmente giustificabile se non in relazione alla divisione fra sunniti e sciiti, tradisce conoscenze che al tempo erano riservate agli specialisti, e non si accorderebbe con l’eventuale ignoranza della natura prettamente islamica dei suddetti filosofi, per giunta quasi contemporanei di Dante. Detto questo - e tacendo di molto altro che ci sarebbe da dire - niente si dovrebbe togliere alla magnificenza della Divina Commedia, che semmai mostra un’ulteriore dimensione, definibile quasi come orientalista ante litteram. Proprio per celarla agli occhi di chi non avrebbe potuto capire, il cauto poeta avrebbe nascosto le figure di Maometto e del quarto califfo ’Alī sotto ’l velame de li versi strani. Come Dante, ha fatto, e continuerà a fare, chi si incarica di traslare nei canoni della propria cultura ciò che di più sottile è stato codificato in altre.


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1 Corano 2:115.

2 Ciò è dovuto in gran parte al successo delle tesi esposte dall’intellettuale arabo-statunitense Edward Said, nell’omonimo saggio pubblicato per la prima volta nel 1978.

3 Nostra aetate, 3, dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 1965.

4 Catechismo della Chiesa Cattolica, 841, Libreria Editrice Vaticana, 2017.

5 A. Celli, Dante e l’Oriente. Le fonti islamiche nella storiografia novecentesca, Carocci, 2013.


Estratto da L’alfabeto dell’Islam. Edizione riveduta e ampliata © Alessio Pinna 2025 - Tutti i diritti riservati / All rights reserved. Per contatti e autorizzazioni: studicomparativi@gmail.com


venerdì 24 gennaio 2025

La particolarità e il successo dello ḥanafismo

Fra le quattro scuole giuridiche sunnite (madhāhib), quella ḥanafita è considerabile come la più flessibile e dinamica, perché ha un grande respiro ermeneutico e favorisce particolarmente l'utilizzo dello istiḥsan, ovvero dell'opinione personale nei casi in cui non sia possibile prendere decisioni utilizzando letteralmente i testi sacri né attraverso i tradizionali metodi dell'analogia (qiyās) e del consenso (ijmā'). Poiché l'islam è olistico, e la scuola giuridica di riferimento si traduce anche in una certa impostazione nel vivere la religione, non è un caso che lo ḥanafismo sia largamente diffuso in Paesi non a maggioranza islamica, dove i musulmani devono adattarsi alle diverse circostanze che si trovano ad affrontare. Ma anche in Paesi a maggioranza islamica che, come la Turchia e l'Albania, fanno da ponte tra fideismo orientale e razionalismo occidentale. O ancora in un Paese come il Kazakistan, che conta la maggiore percentuale di musulmani senza denominazione (cioè che non si identificano in nessuna branca particolare) e di coranisti (ovvero di chi si attiene al Corano ma non si sente vincolato dalla Tradizione). Ma non è neanche un caso che, all'opposto, sia la scuola giuridica adottata da rigoristi del Subcontinente Indiano come i Deobandi e dai Talebani, che ai primi si ispirano. L'elemento comune fra tutte queste realtà, il motivo stesso dell'esistenza di così diverse declinazioni, è proprio la flessibilità e la dinamicità di cui si è detto, connaturate all'impostazione metodologica ḥanafita.

A questa dimostrazione della sua specificità, calata nel panorama odierno, se ne può aggiungere una strutturale a partire dalla Tradizione: rispetto agli altri "padri" della giurisprudenza islamica, l'iracheno Abu Hanifa, fondatore della scuola ḥanafita, fa storia a sé. Risulta infatti che tutti gli altri, da Malik ad Ibn Hanbal, criticarono aspramente il suo approccio, tanto da considerarlo in alcuni casi come eretico. Fra le accuse che gli furono mosse ci fu anche quella (forse tendenziosa) di aver ispirato idee sovversive, quando si ritrovò incarcerato dal califfo abbaside al-Mansur per il suo rifiuto di divenire giudice di Stato, al suo compagno di cella Anan ben David, ebreo. Costui fu a sua volta considerato come un eretico dalla maggior parte dei suoi correligionari, perché rifiutò l'autorità del Talmud, che è in pratica il corrispettivo ebraico della Sunna. E quanto propriamente agli aḥādīth, che sono l'elemento costituente della Sunna ovvero della Tradizione che la giurisprudenza incarna, si ritiene che la seguente sia la catena fondamentale di trasmissione, in cui sono presenti e collegati tutti gli altri protagonisti del tradizionismo islamico ma non il fondatore dello ḥanafismo, di cui si dovrà notare la significativa assenza.

1. Muslim e al-Bukhari: Muslim ibn al-Hajjaj (autore del Ṣaḥīḥ Muslim, ritenuta la seconda più importante collezione di aḥādīth) non era uno studente diretto di Muhammad al-Bukhari (autore del Ṣaḥīḥ al-Bukhārī, ritenuta la più importante collezione in assoluto), ma fu profondamente influenzato dal suo metodo nella raccolta delle testimonianze. Come lui fecero anche gli altri collezionatori, che da allora in poi seguirono tutti la strada tracciata da al-Bukhari.

2. al-Bukhari e Ibn Hanbal: al-Bukhari non era un discepolo diretto di Ahmad Ibn Hanbal, fondatore della scuola hanbalita, ma si ispirò alle sue conoscenze e fu influenzato dal suo metodo. al-Bukhari incontrò Ibn Hanbal durante i suoi viaggi di studio e discusse con lui di questioni relative agli aḥādīth.

3. Ibn Hanbal e al-Shafi'i: Ibn Hanbal fu uno dei più illustri studenti di al-Shafi'i, fondatore della scuola shafi'ita, e da lui apprese il metodo e i principi dell'Uṣūl al-Fiqh, fondamento della giurisprudenza islamica.

4. al-Shafi'i e Malik: al-Shafi'i studiò direttamente con Malik Ibn Anas, fondatore della scuola malikita. Fu profondamente influenzato dal metodo di Malik nella giurisprudenza e nella trasmissione degli aḥādīth.

5. Malik e Nafi', il liberto di Ibn Umar: Malik Ibn Anas apprese molti aḥādīth da Nafi', il liberto di Abdullah ibn Umar, uno dei trasmettitori ritenuti più affidabili nella cosiddetta "Catena d'Oro" (Isnād adh-Dhahabī).

6. Nafi' e Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj: Nafi' apprese la conoscenza e gli aḥādīth da Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj, un noto sapiente e trasmettitore ritenuto molto affidabile.

7. Al-A'raj e Abu Hurayrah: Abd al-Rahman ibn Hurmuz al-A'raj studiò e trasmise molti aḥādīth dal celebre compagno del Profeta Abu Hurayrah.

8. Abu Hurayrah e Maometto: Abu Hurayrah era uno dei compagni che visse ai tempi del Profeta, e fu quello che trasmise il maggior numero di aḥādīth, ovvero quello a cui il maggior numero di aḥādīth è attribuito.

Maggior diffusione per Paese delle principali scuole giuridiche islamiche, con in verde quella ḥanafita. Anche nelle Americhe, non riportate, risulta come quella più presente.