E ancora si noti con quanta disinvoltura innumerevoli intellettuali, tanto di indirizzo teo/neo-conservatore quanto progressista, usino nelle loro analisi una terminologia che equipara l’aggettivazione “giudaicocristiano” a “occidentale”, per esempio riguardo ai valori di riferimento.
Ma perché si arrivasse a tutto questo i sentimenti di empatia e di identificazione non sarebbero forse bastati se non si fossero venuti a creare altri fattori determinanti. Uno come accennato è la comparsa del citato Stato di Israele, che sempre più cristiani vedono come una manifestazione di profezie bibliche (inglobando quindi nella propria dottrina un’esegesi letteralista della Bibbia che è quella propria non del cristianesimo ma del giudaismo post-veterotestamentario), e l’altro è l’evento a esso indissolubilmente collegato, di proporzioni colossali sul piano storico quanto per le implicazioni teologiche: la Shoah.
Senza soffermarci oltremisura su questo pur cruciale elemento, pensiamo al fatto che ci si riferisce a tale avvenimento con la parola Olocausto, che letteralmente indica un sacrificio a scopo devozionale, e che solo per questo tragico evento usiamo la “O” maiuscola, come se indicassimo il sacrificio per eccellenza. Ovviamente nella dottrina cristiana questo è teoricamente quello di Cristo in croce, e in generale lo era per il sentire dei cristiani prima di tale avvenimento. Qua c’è evidentemente un qualcosa che tocca la sfera del Sacro ed è interessante a questo proposito rilevare che l’archetipo del sacrificio di Dio è proprio del cristianesimo e non del giudaismo post-veterotestamentario, a ulteriore riprova del fatto che la dinamica che stiamo esaminando è fondamentalmente un movimento del primo in direzione del secondo. O pensiamo al fatto che in molti Paesi occidentali è reato condurre delle ricerche sulla Shoah che possano arrivare a ridimensionarne in qualche modo la versione storicamente accertata o anche solo discuterne in modo improprio a livello di opinione personale. Anche qua non è necessario approfondire la questione, e meno che mai mettere in dubbio le dinamiche e le cifre ufficiali della Shoah, ma solo rilevare che se una verità è dispensata dall’indagine scientifica e non si può trattare soggettivamente è perché evidentemente gode di uno status paragonabile con le debite contestualizzazioni a quello che fino a prima dell’era moderna era riservato nella Cristianità alle sole verità di fede cristiane. Al contrario nessun legislatore oggi si sognerebbe mai di emanare una legge per condannare chi metta in dubbio, per esempio, la storicità della vita e della morte di Gesù Cristo.
E così via potremmo citare sentenze divenute di senso comune come «Dov’era Dio ad Auschwitz?»[4] o «Dio è morto ad Auschwitz»[5] in cui il campo di concentramento sembra diventare un nuovo e tangibile Calvario e Adolf Hitler con i suoi esecutori i carnefici per eccellenza. E ancora rilevare come nel continuo e doveroso riportare alla memoria quella immane tragedia ci sia una perenne riattualizzazione – proprio come una continua ripetizione è quella del memoriale della morte e della resurrezione di Cristo – cioè una sorta di liturgia laica nella quale le massime autorità sono coloro che l’hanno vissuta in prima persona, o coloro che sono deputati a portarne il ricordo, e alla quale tutti i cittadini sono chiamati a partecipare. Tutti, a prescindere dal credo o dal non-credere, perché ciò che rappresenta è alla base stessa della scala di priorità che si è data la civiltà nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, e per questo non può essere relegata, come ormai avviene nella nostra società per le espressioni religiose tradizionali, alla sfera personale o di comunità specifiche.
[4]cfr. Elie Wiesel, La Notte (Giuntina, 1986).
[5]cfr. Richard L. Rubenstein, After Auschwitz (John Hopkins University Press, 1992).